Rwanda…Burundi…Congo.
Sono nomi che tutti noi, purtroppo, conosciamo. Ancora abbiamo negli occhi la visione dei massacri perpetrati, delle lunghe colonne di profughi e dei loro campi per rifugiati, dove la fame e le epidemie, ancor oggi, uccidono più della guerra stessa. Sarà difficile cancellare le immagini dei tanti bambini che cercavano, inutilmente, di ottenere un po’ di latte da seni vuoti e avvizziti o dimenticare gli sguardi supplichevoli di tante mamme che imploravano un aiuto, che raramente arrivava.
Dove erano in quei momenti i Potenti del mondo? Riuniti intorno ad inutili tavole rotonde, dove si discuteva sul come intervenire per far cessare massacri, il cui ricordo peserà per sempre sulle loro e nostre coscienze.
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Mi trovavo in Zambia, nazione confinante a nord ovest con il Congo e, sui giornali locali, leggevo le notizie che riferivano, parlando delle lotte mai cessate, d'interessi stranieri in queste aree martoriate. Paesi dell'area, ma tra le righe era chiaro anche il riferimento al mondo occidentale. Scrivevano di accordi per lo sfruttamento del sottosuolo che, anche se in forma trasversale, finanziavano l'una o l'altra fazione in lotta. Stranamente nessun articolo accennava a guerre causate per motivi etnici.
Questo m’incuriosì e mi portò, durante un periodo passato nelle vicinanze di un campo profughi a Mwinilunga, al confine con il Congo, a voler approfondire quanto di vero c'era in ciò che avevo letto.
Una domenica mattina notai un gruppo di bambini che si stava avvicinando. Era evidente che provenivano dal campo profughi alla ricerca di cibo e questo mi fornì l'occasione per cercare di conoscere qualcosa del loro passato. Chiamai un amico, anche lui profugo dal territorio dei Grandi Laghi, a farmi da interprete.
Naturalmente pensammo per prima cosa a dare loro del cibo e delle bevande vitaminiche e qui ebbi la prima grande sorpresa. Il cibo (pane, biscotti, frutta e succhi) venne da loro diviso in parti assolutamente uguali; ognuno ne mangiò una certa quantità (meno della metà) e poi chiesero della carta per conservare quanto rimasto. Domandai se intendevano consumarlo durante la giornata… la risposta mi lasciò allibito. "No" dissero "questo è per i nostri compagni che sono rimasti al campo". Mi affrettai a dare loro altro cibo e cominciai a porre delle domande.
Il mio amico mi aveva già fatto notare la loro appartenenza ad etnie diverse e allora chiesi a ciascuno il Paese di provenienza: Rwanda. Tre di loro erano Tutsi e quattro Hutu. Anche i loro amici rimasti al campo appartenevano a queste due etnie e allora mi sorse spontanea una domanda "Ma come, gli Hutu e i Tutsi non sono nemici?". Domanda stupida, lo so, ma ero curioso di sentire la loro risposta… che non venne. Arrivò invece una risata e, probabilmente, si chiesero se ero tutto sano di mente.
Rimasi con loro per alcune ore e mi raccontarono d'essere soli, avendo perduto i famigliari… o perché uccisi o per averne perso il contatto durante le centinaia e centinaia di chilometri percorsi a piedi, attraversando la savana e nascondendosi nella foresta, nutrendosi di quel poco che riuscivano a trovare. Mi dissero anche che molti dei loro compagni non erano riusciti ad arrivare per colpa delle malattie, della mancanza di cibo o, in alcuni casi, perché non si erano nascosti abbastanza bene.
Chiesi come vivevano nei loro villaggi o città. Nessuno di loro fece cenno a rivalità tra la loro famiglia e quella del vicino, anche se d'etnia diversa. Certamente esistevano difficoltà, però solo dovute a ragioni economiche o sanitarie… ma questo non era un fattore di divisione, anzi… in caso di bisogno si poteva contare sull'aiuto del vicino (fa parte della loro cultura, specialmente nei villaggi).
Mi raccontarono degli orrori cui avevano assistito… genitori massacrati, sorelle stuprate e, per i più fortunati, la fuga. L’arruolamento coatto di molti dei ragazzi che non riuscirono a fuggire, mandati a combattere contro i loro ex vicini, con fucili più alti di loro. La fame e le punizioni che sempre incombevano verso chi non dimostrava solerzia nell’uccidere.
L'ultima domanda che rivolsi loro era diretta a conoscere i motivi per i quali erano stati obbligati a lasciare le loro case. "La guerra" risposero. "Ma perché questa guerra?" "Non lo sappiamo".
Il mio incontro terminò qui, ma non crediate che queste risposte provenissero da "bambini"… sono venute da “adulti” con il corpo e l'età di un bambino, troppo presto obbligati a diventare "grandi".
Probabilmente molti di voi continueranno a pensare che la responsabilità di quanto successo sia da attribuirsi esclusivamente agli abitanti di queste Regioni, alla loro "ignoranza" nel permettere a criminali assetati di potere e ricchezze di trascinarli in guerre fratricide. Io continuerò a credere che una grande responsabilità di quanto è accaduto, accade e continuerà ad accadere, è di quella parte del mondo che si definisce "Civile" e che guarda a questi popoli soltanto come fonte di sfruttamento, riempendosi la bocca con parole come "Democrazia" e "Giustizia" senza conoscerne il significato o, meglio, dimenticandolo volutamente.
Quando sentiremo parlare di nuove guerre in Africa o in altri continenti e, purtroppo, questo succederà finché continueremo a “credere” di essere i padroni del mondo, cerchiamo di andare oltre le notizie che ci sono fornite dai Media. Cominciamo a far sentire anche la nostra voce… contro le armi, contro gli aiuti dati a Presidenti corrotti, contro quelle aziende che, camuffandosi da colomba, pensano soltanto al loro tornaconto.
La foto che vedete sono dei bambini di cui ho parlato: due di loro sono stati obbligati a combattere, una di loro ha dovuto fare "compagnia" ad un soldato. Guardate i loro occhi: sono occhi Hutu e Tutsi, ugualmente feriti. Albino