Chat
sabato 4 gennaio 2014
*Idee per il Mediterraneo interiore
giovedì 31 ottobre 2013
Un Tocco a sorpresa
sabato 28 settembre 2013
Ricordi sporchi d'estate
Negli anni '90 l'estate ci faceva cosi' bene che dimenticavamo di mangiare. L'estate era piena di gente, si correva fra grida e pianti, per tuffarci nel rumore azzurro delle onde. L'estate non finiva piu'. Ecco, ricordo la prima volta che vidi tanta immondizia. Uno del gruppo aveva trovato un "ponte" che portava a Carinola. Organizzammo una spedizione e facemmo rifornimento passando nei campi di frutta. Per la strada che conduce al Convento, vedemmo una grande ammucchiata di sacchi. Restammo li' impalati, qualcuno forse disse qualcosa.
Chissà che passo' nella nostra testa mentre ci tuffavamo in una pesca colta di corsa.
Qualche anno dopo la musica ci faceva cosi' bene che dimenticavamo di dormire, di tornare a casa. D'estate c'era comunque gente, ma non la vedevamo. Un basso, zaini invicta e le musicassette ci portavano lontano. Un giorno, in una stanza, fondammo un giornale e parlammo nei bar e nelle cucine d'immondizia abbandonata.
Chissà cosa passava nella testa della gente che leggeva la domenica, parole in bianco e nero, sul loro paese.
Verso la fine dei favolosi anni '90 funzionavano una meraviglia il Ce4 e l'Eco4 al punto che c'era gente che non dormiva la notte per fotterci, anche se non era estate.
Avrei ancora tanti ricordi, forse troppi, ma avevo bisogno di risalire a quelli piu' lontani.
L'estate è passata da qualche giorno, ma per tutte le stagioni c'è gente che va in giro e nasconde immondizia nelle campagne per sporcare anche i ricordi di quelli che verranno.
sabato 2 ottobre 2010
Le beffe della vita
Non aveva voglia di andare a dormire quella notte. Sentiva di poter correre per il mondo con la forza di un leone, di non aver più bisogno di dormire, o di mangiare. Camminare, parlare, ridere, piangere, volare lontano verso l’imperscrutabile profondità del destino fino a che non faccesse giorno. Sognava di vivere per sempre, ma come se quello fosse l’ultimo giorno. Si, in quel momento, Roberto era assolutamente consapevole di quanto fosse sacra la vita. A quanti di voi non è successo di sentire questa stessa sensazione? Magari quando avete per caso fatto un bell’incontro con una persona, oppure quando dinanzi ad un buon raccolto vi siete sorpresi a sorridere, o ancora restando impalati di fronte al silenzio degli alberi. Oppure quando avete amato, stretti in un letto malsicuro e delizioso, morendo tra le braccia calde dell’amante.
Ora però strada facendo, ripensava alla sera prima, alla baruffa scoppiata nemmeno ad inizio serata con quel solito coglione, alla barba fatta per scommessa al piccolo Luciano, ai quartaroni vinti a tre sette. Si era divertito assai, ma quando poteva continuare questa vita? Intanto le gambe sembra che non conoscessero altre strade se non quella della goliardaggine pura. Roberto ora era arrivato ad una piazzetta a quasi mezzo miglio dal centro della città, dove la notte si perdeva dentro quelle fumose locande che ben conosceva, zeppe di mignotte, cariche di vino. Lì dentro non si parlava di politica, non si litigava che per cose da niente, e poi si ritornava a bere insieme. Ma ora era arrivato. La porta era chiusa, ma da dentro veniva il solito baccano. Che fosse una burla? Perchè continuava a bussare e non si decidevano ad aprirgli? Si abbassò e si mise a guardare dal buco della chiave. Fece il suo ingresso dal cesso con i piedi ben piantati a terra, uno strano personaggio, che disse qualcosa alla formosa locandiera, la quale ammiccò a sua volta. La sala era uno spettacolo. Ora il vecchio Mario, ubriaco da vent’anni lì dentro, pare stesse guardando proprio verso la porta, dove l’occhio di Roberto mirava rapito la visione dell’allegra festa in corso. Ma Mario era troppo ubriaco per parlare. Non era uno scherzo, erano tutti ubriachi e si erano chiusi dentro, per festeggiare fino a morire la festa di San Crisostomo. Che cosa poteva fare? Continuò a bussare forte, fino a quando qualcuno aprì la porta. La musica si fermò, tutti uscirono fuori, e quando lo riconobbero scoppiarono dal ridere vedendolo sobrio e ad uno ad uno cominciarono a pisciargli addosso. Anche le donne gli pisciavano addosso. Gli pisciavano dappertutto, anche in bocca e credette di berne molta, fino a quando stava per affogare e glup-glu glu –glup-gll gllu. Si svegliò e si pisciò addosso. Era un brutto sogno, cominciato bene.
Non c’è nessuna morale in questa storia, se non quella che non c’è nessuna differenza tra credere di vivere o credere di sognare. Infatti, come si è visto, la pisciata alla fine è meravigliosamente apparsa tra le lenzuola. In quel momento Roberto ha capito quanto la vita fosse una beffa.
Mimì
lunedì 21 dicembre 2009
Le fantastiche avventure di Giggino e il tasso
Perché ti stupisci così tanto? – chiese con calma il tasciuto - sono Brunetta, l’ambasciatore del regno di Piedmontin e porto notizie gravi: il reggente della contea è caduto vittima della terribile epidemia della scrofa, e i suoi sudditi si trovano senza una guida. Solo tu, data la tua esperienza maturata nella contea di Calenum al seguito di ben due mostri sacri come il temibile Biasox e il suo degno successore Giano dè Fontanavecchia detto il Bifronte, puoi condurci verso il superamento di questo periodo di crisi e verso un nuovo inizio.
Lusingato, Giggino si versò un altro drink, e fece per pensarci su.
Coraggio – insisté il tasciuto – seguimi attraverso le montagne e torna nel villaggio dove sei nato.
Giggino esitò. Guardò dalla finestra l’appezzamento di terreno dove nei suoi piani sarebbe sorto il Polo scolastico, e sembrò deciso a voler scacciare l’incomodo ospite. Poi improvvisamente prese la sua vecchia e polverosa casacca da montagna, e si incamminò dietro al tasciuto.
Continua…
mercoledì 15 aprile 2009
Jaromil, l'insostenibilmente leggero essere
C'è ancora da immaginarseli, i suoi occhi. Avvolti da lunghi capelli, d'un castano chiaro, a scendere su chiara pelle. Non era più che un bambino, in fondo. E soleva correre. Ma correre, in quei prati, non era il correr nostro. Correre, sotto quei raggi, avanzare a quel modo attorniati e colpiti da quei maledetti raggi di sole, non era un giro, neppure nei giardini di città. Maledetti raggi, poi, non lo erano affatto. Come tutto su di lui, erano nobilitanti. Erano il perfetto necessario lodevole emblema della sua virtù, della sua nobiltà, della sua giustificazione. Ecco, correva in mezzo alla sua giustificazione con le braccia aperte, anche nudo, e con sul viso un sorriso di labbra rosse, rosse e sensuali, ricami di vino orgiastico. Superò delle colline, e iniziò a seguire il fluire d'un fiume, osservando e inarcando con simpatia le labbra al riscontrarsi con quelle immagini, con quello scorrere, in quell! 'immobile, con quel semplice congiungersi, stracantato, stralodato, strasparlato. Come l'Amore. E come questo, lui sapeva di sentirlo. Come questo, che sapeva di avere con sè, intrinseco, nelle vene iniettato e lasciato scorrere come dono d'un padre ormai stanco. Ma stanco, stanco lo era lui, il figlio. Ecco perché aveva rubato, perché se n'era infuso, e ne era diventato parte e portatore: tale si sentiva. L'aveva fottuto, e già che c'era, s'era fottuto il vino, ma poco,e aveva adocchiato l'arte del sesso, - sapeste la curiosità che aveva-, ma ne aveva inteso non troppo. Ma, che quel poco di tutto, insieme al resto, che l'avevan reso superbo l'aveva capito. Lo comprendeva, come ora, con le braccia tese, le mani, le sue mani aperte.
Dal fiume si spostò, per percorrere una stradina. Non molto grande, un po' scura. Attraente, indubitabile: e lui, sembrava colorarla. Giunto nei pressi d'un ponte, si fermò. Una bambina, vestita solo di sè, appoggiata al muretto, guardava il cielo. Le si avvicinò, con forza ingenua le si avvicinò, e le prese la testa, tenendole i capelli, le morse le labbra, le si appoggiò al seno, la cinse,fece incontrare le lingue, incrociare, giocare, e lo diresse, lei, lo diresse per terra. Capriole, scherzose capriole, e poi baci. Rotolarono fino a sotto il il ponte, per una strada in discesa, si esiliarono sotto il ponte, tra i grandi spazi di pietra, lasciando quell'acqua bassa l'impregnasse, per poi realizzare quei giochi più intimi che lui aveva un po' intuito. Poi chiusero gli occhi e si riposarono. Uno sull'altro, così che non si capisse chi si appoggiava su chi.
All'aprire degli occhi, lei disse "Un ditale per cucire".
All'aprire degli occhi, lui disse "E' il cielo, scrive Eluard".
La bambina si alzò, ponendosi su di lui. Lo guardò dritto, s'impresse sull'altro la follia dei suoi occhi, per sempre. E con le due dita, sembrava volesse accarezzarlo, sembrava volesse sussurrare anch'io ho imparato il tuo nome, anch'io ho imparato il tuo corpo, anch'io t'ho compreso, sembrava volesse farsi amare ancora una volta, sembrava volesse ritrarsi, sembrava ritornare in forza, sembrava sicura, lo accecò.
Lo accecò
Il tramonto era un'alba e non aveva più il nesso.
Lui pose lei una rana sulla testa, lei gli riempì il cuore di miele e d'api, e divenne il suo bastone. Così resto. Anche ora.
E ancora, come dopo i giochi sotto il ponte, i loro corpi erano appoggiati così che non si capisse chi tenesse l'altro.
giovedì 26 marzo 2009
I delfini
La mattina era iniziata così, come al solito,
sipario che si apre cigolando su vite insulse,
su Abitudini di Vita, su Vizi di Vita.
Meccanismi poco oliati che stridono nelle loro tristi guide.
Questa non è vita, ne è solo un surrogato, un succedaneo, una banale imitazione: un’Abitudine, appunto.
Si vive per ignavia, si vive per accidia, vivere per non affaticarsi a morire…
Ogni volta che i suoi occhi si aprivano, - appena fuori dal regno dei sogni, e prima ancora che razionalmente iniziava a cercare di carpirne brandelli - un pensiero gli si affacciava fisso alla mente: i Delfini.
E se fossimo delfini?
L’aveva spiegato a tutti ormai, a tutti quelli che gli capitavano a tiro, ed ognuno di questi, sempre rispettando in sua presenza la sua condizione di Don, - “Ma sì Don Ignazio è proprio come dicete vossia”, “Don Ignà vui site nu genio” - avevano iniziato a prenderlo per pazzo. Quella che più soffriva di tutte queste <<Fanciullerie>> - come era solita chiamare questa, e le innumerevoli altre stranezze del suo consorte – era Donna Cesira Trinchetta maritata Gussaldo.
“E chi se lo sarebbe aspettato?”, “un ottimo partito!” “un possidente!” “un uomo d’onore!”
A sentire le comare, - “Ah! Serpi malevole!”. In verità Don Ignazio Gussaldo, da celibe rappresentava il non-plus ultra del paesino di Rocca Pisticca: ricco, bello, alto, biondo. A quei tempi poi, tante storie non riuscivano a trapelare la pesante coltre di silenzio che la Baronessa madre aveva steso sugli “interessi” del figliolo. Cesira in un moto di rabbia velata da una lieve vergogna rammentava perfettamente perfino gli apprezzamenti delle più smaliziate, che parlavano anche di certe sue doti segrete; ad esempio si ricordava pari pari le parole di Filumena Liguri, - “A’Cesì, un foco, un foco!”. “Un foco sì, ma de paglia, de cerino, pronto ad accendersi veementemente per un nonnulla, per poi ancora più repentinamente placarsi”. <<Conigliuzzo mio>> aveva iniziato a chiamarlo, e dietro questo tenero vezzeggiativo si celava l’astio, l’insoddisfazione e l’invidia più nera.
Intanto il pensiero di Don Ignazio, come ogni mattina, proseguiva ponendosi domande e fermandosi alle spiegazioni, come un treno che pur facendo varie fermate minori, è diretto verso la sua meta, verso una grande stazione di città: Quel dì mai paragone fu più azzeccato di questo, ma procediamo con ordine.
Come dicevamo, i delfini devono ricordarsi di respirare, altrimenti ciccia.
Il cuore è diverso.
Si sa, il cuore va da sé, pompa e ripompa alacremente senza batter ciglio.
Bel tipo il cuore, ve lo raccomando; non ti fa un favore nemmeno se piangi in Turco, e soprattutto, non guarda in faccia a nessuno.
Tanto per rendere il personaggio, se ne fotte anche di Don Cervello. E dico solo questo.
Ora, tornando ai delfini; e se anche noi dovessimo ricordarci, - non dico del cuore, che sarebbe troppo complicato –, ma, ecco, se anche noi uomini dovessimo preoccuparci coscientemente di respirare?
Don Ignazio si astraeva ore ed ore, giornate intere, nelle sue elucubrazioni, e – corpo di mille alambicchi – nei suoi esperimenti. Perché lui, sì, lui Don Ignazio Gussaldo si riteneva un uomo di scienza con tutti i crismi, e quindi tutto ciò che teorizzava doveva sperimentarlo.
Quindi, anche ponendo il caso, di avere una capacità polmonare superiore all’attuale, in grado d’incamerare aria diciamo per un’ora d’autonomia, non ci si poteva fermare mica lì, si doveva provare con esperimenti la validità della tesi. Altrimenti sarebbe stato una pagliacciata, né più né meno delle ciarle delle vecchie e dei divertissment che tanto erano cari ai suoi insulsi figli, nati e cresciuti nella bambagia di una vita non vera, sprecando il giorno caracollando a cavallo e la notte dietro a merletti svolazzanti.
Gli esperimenti di Don Ignazio, da qualche mese a quella parte, approfittando anche della bella stagione, sussistevano in lunghe abluzioni nel piccolo golfo di mare racchiuso da una splendida caletta, proprietà dei Gussaldo fin da quando la torre normanna svettava sulla punta ovest del promontorio, a guardia di pirati saraceni che in realtà non erano mai arrivati. Anche la torre, come tutto lì attorno, era suo. Tutto ciò che occhio nudo riuscisse a vedere, ponendosi di spalle alla marina fino a 40.000 ettari nell’entroterra era roba dei Gussaldo, e se proprio non si riusciva ad abbracciare tutto con un solo sguardo, come si dice, “Carta Canta”.
Questi lunghi bagni avevano un che di particolare, di scientifico avrebbe rettificato Don Ignazio; non nuotava, non faceva il morto a galla, niente di tutto ciò. L’unico esercizio che ripeteva con una precisione cronometrica erano delle lunghe apnee. Un giorno un fittavolo passando di lì, in quella giornata assolata ma fresca, ammirava estasiato il mare piatto come una tavola, e si avvicinò alla riva, pensando bene di liberarsi anima e corpo di fronte a quello spettacolo di Dio. Senonchè, appena calatosi le braghe uno sbruffo di schiuma ruppe l’immobilità dell’acqua, e un mostro metà uomo e metà pesce ne uscì ansimando. Era sicuramente un Tritone, il Demonio in persona che se l’era venuto a prendere per colpa dei suoi “vizietti”. Gasparo, questo era il nome del fittavolo, s’inginocchiò tremante, non riuscendo a tenersi dentro quello per cui s’era calato i calzoni, e iniziò a biascicare tra le lacrime, delle suppliche. In quel momento il Tritone si mutò in Don Ignazio Gussaldo, che giunto a riva lo apostrofò “Bestia di un Gasparo, che piangi? Da dove giunge cotal puzzo nauseabondo? Ah sei tu!
Somaro di un bifolco, ti sei cagato addosso!! Nemmanco le fiere arrivano a questo stato di abbrutimento”.
“Piuttosto, mentre ti dai una sciacquata a te ed alle tue braghe ti farò dono di un briciolo della mia scienza, e ti metterò a parte delle mie ultime scoperte.” Gasparo entrò in mare fino al ginocchio come se stesse entrando in un covo di serpi, e riluttante iniziò a lavar via il tanto vituperato prodotto del suo corpo.
“Caro il mio Gasparo, sto lavorando a qualcosa di universale, qualcosa che sarà fondamentale nella vita di tutti, dell’intiero consorzio umano e per cui i posteri mi omaggeranno come un novello Leonardo. Macchè Leonardo! Il Vinciano non sarà niente al mio confronto.” Poi abbassando leggermente il tono della voce disse: “Sto lavorando sull’Aumento della Capacità Polmonare…Pensa che rivoluzione! ”.
“Su…cosa, Padrone?” scappò detto a Gasparo, e quello fu un grosso errore.
“Ma certo! Cosa vuoi che ne sappia tu di delfini, di capacità polmonare, di apnea, di scienza, tu, tu pensi solo a zappare, a mangiare, a fottere e sfornare figli come fossero pagnotte, e defecare; e manco quello pare che ti riesca bene, zotico. Ma voi, voi ignavi siete la rovina del mondo…ma del resto se siete stupidi non è del tutto colpa vostra…quello che cercavo di dirti è che ho trovato il metodo per Ingrandire i Polmoni”.
A questo punto Don Ignazio si aspettava un cenno d’assenso, un sorriso, un qualche gesto, e invece il povero Gasparo rimase lì con quella faccia sdentata da ebete senza proferir verbo, e senza che da quel ghigno scolpito dal sole trasparisse emozione alcuna.
Stizzito Ignazio si allontanò farneticando e da allora e per molti giorni si chiuse in un mutismo nervoso e tetro. Nemmeno la sua dolce Cesira riusciva a capirlo, a confortarlo: poteva il mondo essere solo questa ottusa palla di fango, sangue e dolore? Davvero era solo questo, o bisognava credere al paradiso della Chiesa “Non vi affannate in questa vita, chè la vera vita è ancora al di là da venire.” Sì e allora perché c’erano i principi della chiesa? Perché non facevano altro che chiedere soldi? Perché prima di unire sto scarcagnato pezzo di terra chiamata Italia, avevano dovuto combattere il Papa, che tuttora aveva un suo Stato e dettava sue leggi?
Ah lui no! Lui non si sarebbe fatto abbindolare.
E così mattina dopo mattina, la prima mezz’ora, appena sveglio pensava ai delfini, ai polmoni, all’aumento della capacità polmonare, ad una società ed una cultura parallele, fondate sulla necessità di respirare volontariamente. E fantasticava di città e popoli, di culture e società, di viaggi ed avventure.
Quella mattina ci stava pensando più del solito, era nervoso perché Cesira come al solito, per farlo alzare aveva iniziato a parlare della messa del mattutino, di com’era stato bello e commovente, con i frati gregoriani arrivati apposta dal convento di Sofferello a Monte per allietarli con i loro cori. E poi la chiesa addobbata di fiori bianchi per le prime comunioni , e poi….
“Basta Cesira.”, aveva detto lui, senza urlare, ed era rimasto come congelato nel gesto, con gli occhi corrucciati, il labbro inferiore pendulo e la mano destra fuori dalle coperte rivolta verso la moglie, aperta contro Cesira che continuava a ciarlare…
Don Ignazio Gussaldo ogni mattina che nasce pensa a i delfini,
ai polmoni, alla scienza, e a quello che ci può portare d’utile,
e proprio mentre pensava ai suoi amati delfini che saltavano liberi tra i flutti…
…proprio come un tuffo…
Nino Lo Gnomo
martedì 3 marzo 2009
Più ci speri e più non succede.
“Cosa c’è?” chiese con fare distratto, come se non volesse saperlo davvero, ma volesse solo riempire un imbarazzante silenzio. Alzando lo sguardo la vide in una penombra di Murnau e gli sembrò interessante, ma non era interessante, non lo era più.
“Sei preoccupato?”
“Si” disse “non credo che Christian manderà i soldi “
“i soldi, i soldi, sembra che non bastino mai e tu poi sembri così venale a volte”
“che vuoi dire?”
“Lascia stare”
“no, sul serio, voglio saperlo”
“è che certe volte sembri infelice solo quando non ne hai.”
Restarono entrambi in silenzio per qualche secondo, come se lei gli avesse fatto una confessione che non si attendeva, aveva detto certe volte, come se volesse evitare di dire sempre, quasi che cercasse di rendergli il boccone meno amaro.
“E’ chiaro che non sai di che parli” la liquidò, ormai era quasi seccato e avrebbe preferito restare da solo, ma non le disse di andarsene perché in fondo gli faceva ancora un po’ paura restare da solo, per via di tutta la malinconia che gli procurava.
“E poi” disse lei “potresti sempre provare a scrivere qualcosa di sconcio, come fanno tutti.”
Era vero, aveva sentito che diversi scrittori si guadagnavano la vita così, che c’era un tale, che si chiamava Girodias che pagava anche abbastanza bene. Aveva in bocca un gusto ferruginoso che gli saliva dallo stomaco, restò un istante ad assaporarlo, sembrava stesse davvero valutando quello che Marie le aveva detto, ma non era vero. Marie si mise a sedere sulla sedia vicino alla scrivania, c’erano dei fogli sparsi, ma tutto sembrava ormai privo d’interesse, come se non ci fosse niente da fare sul serio, e come se da nessuna parte in quella stanza fosse possibile spremere denaro. Era un uomo sconfitto, o almeno così sembrava a Marie, lei che una volta gli aveva persino visto vincere un incontro importante e lo aveva visto ridere. Era cresciuta nel mito hemingwayano e si era fatta l’idea che un uomo dovesse sempre trovare il modo di farsi valere e di resuscitare con un colpo di frusta, darsi una scrollata e rimettersi in sesto. Quando ne avevano parlato, nel caffè algerino, lui non le aveva dato retta, limitandosi a smontarla.
“A volte ho solo voglia di tornare in Germania” disse lui scuotendo il capo da sinistra a destra.
“Credo sia ora di andare” disse lei, lui non disse niente e anche se avrebbe voluto che lo abbracciasse e lo salvasse dalla sua solitudine, non disse niente e lasciò ancora una volta che una cosa voluta scomparisse dai suoi desideri schiacciandola come se invece non la volesse affatto.
Mentre si allontanava lei disse, ma senza rivolgergli lo sguardo, “forse dovresti solo farti una bella scopata, e tutto tornerà a posto.”
Quando fu fuori dalla stanza prese una delle zollette di zucchero che teneva in una scatola di latta e se la mise in bocca. La luce era spenta e non aveva voglia di accenderla, era presto e a Parigi la luce resiste fino a tardi, solo che la sua stanza dava sul cortile e non era mai troppo illuminata. Era una cosa che alla lunga potrebbe far male, ma lui non vi sarebbe rimasto per molto e certe volte la luce scarsa gli sembrava una cosa affascinante. Lungo il corridoio si sentirono i passi di qualcuno, sembravano due ragazzi, parlavano in inglese, gli riuscì solo di capire “Parigi è una merda” e “era meglio il Canada” anche se di quest’ultima affermazione non poteva essere troppo sicuro. Cercò di darsi una mossa, improvvisamente gli venne voglia di fare quattro passi. Si alzò per prendere il cappello, indossandolo scrutò il suo volto nel piccolo specchio, forse non pesava più di sessanta chili adesso e di sicuro non sarebbe potuto tornare a combattere in quelle condizioni. Prima che riuscisse ad uscire, bussarono alla porta. Era Maurice, un marocchino che viveva sulla rive gauche. Era vestito sempre elegante, certe volte portava a spasso persino un ridicolo bastone col pomello in ambra. Nessuno sapeva bene dove prendesse i soldi, ma giravano voci poco lusinghiere sul suo conto. Aveva una posa arrogante e non gli piaceva. Era stato un pugile professionista e se voleva sapeva che avrebbe potuto stenderlo anche in quelle condizioni, ma tuttavia era incuriosito e voleva sapere cosa era venuto a fare.
“Dicono che stai messo male” disse
“chi lo dice?”
“tutti e nessuno…”
Maurice prese a girare per la stanza semibuia, lui si chiese se fosse stata Marie, se la immaginava sul lungosenna, con fare da puttana, arricciolandosi una ciocca di capelli mentre rivelava a quel bamboccio particolari sul suo malumore.
“E’ stata Marie a mandarti qui?” Disse, pentendosene subito perché gli sembrò di aver abboccato a un bluff.
“No, sono venuto da solo.”
Sembrava la trama di un film, col personaggio esotico che esitava a dire quello che era venuto a fare, inchiodando gli spettatori alla sedia.
“Posso sedermi?” chiese.
Restarono a luci spente, Maurice era seduto sulla stessa sedia su cui prima era seduta Marie, lui tornò a sedersi sulla stuoia dove era solito prendere il tè con gli americani del piano di sotto.
“E così ti sei messo a fare lo scrittore” disse, dando una rapida occhiata ai fogli sparsi sulla scrivania, aveva un’aria di sfida malcelata che gli faceva rabbia.
“Fai bei soldi?” Chiese. Lo stava prendendo in giro, ma la cosa che maggiormente lo irritava era questo suo temporeggiare. “Che c’è Maurice? Che sei venuto a fare?”
“Va bene, va bene, arrivo al dunque. So che hai bisogno di soldi, io invece ho bisogno di qualcuno, uno pulito, svelto, che capisce al volo, sono soldi facili facili, che ne dici?”
“Che ne dico di che?”
“Si tratta di fare un lavoretto al porto”
“vuoi che faccia del lavoro sporco?”
“Si tratta di dare un avvertimento, c’è un tale che deve dei soldi ad un amico, devi solo mettergli paura, niente di più, sei stato un pugile, ti ricorderai come si danno quattro ceffoni ben assestati.”
“Allora che ne dici?”
“Quanto?” Disse
“cinquanta.” Restò con lo sguardo nel vuoto, per un attimo gli venne da pensare al mare, a come lui lo aveva conosciuto, dal pontile di una barca.
“Credi siano pochi?”
“Non è per i soldi, non è quello, è solo che preferirei stare fuori dai guai, mi dispiace”
“lascia perdere, come non detto, troverò un disperato con più fegato da un’altra parte, stammi bene Nazista.”
Avrebbe davvero voluto dargli una lezione, lì, in quello stesso momento, ma sapeva che Maurice era una canaglia della peggior specie e non voleva guai. Gente come lui era persino convinta di essere nata dal giusto lato dell’umanità. Se fossero stati in America lo avrebbe sbattuto spalle al muro e gli avrebbe strappato quel tono arrogante a suon di pugni, ma erano in Francia e lì uno come Maurice gli faceva paura. Era a stomaco vuoto e si sentiva già stanco.
Quando Maurice se ne fu andato, cercò di mettere ordine nelle sue emozioni, per certi versi si sentiva un naufrago.
Senza nemmeno rendersene conto si scoprì a gironzolare lungo il perimetro della stanza. Quando fu vicino alla scrivania toccò i suoi fogli disordinati con le dita, alla fine li prese e li sistemo, facendoli sbattere in piedi sul legno, come se fossero dei piccoli menhir. Aveva dentro una sensazione sgradevole che non lo abbandonava. Si sentiva sconfitto e impotente. Aveva fatto molti incontri a Pasadena, ma non ne aveva vinti tanti. Conosceva quella sensazione perché tante volte l’aveva incontrata sul ring. Si faceva chiamare il nazista, per darsi un contegno da ariano e da duro. Non era stato un gran che come pugile e per fortuna se n’era accorto prima di farsi ammazzare. Sperava di valere di più come scrittore, ma questa è una cosa che non si poteva veramente sapere. Aspettava dei soldi dall’America, ma sapeva che Christian non glieli avrebbe mandati. Non erano molti soldi, e per via del cambio particolarmente sfavorevole sarebbero stati anche di meno, ma adesso gli sarebbe piaciuto averli in tasca comunque. Se la Germania certe volte gli mancava, allo stesso modo capiva che la Germania non era il suo posto. Neanche l’America era stata il suo posto e forse nemmeno la Francia lo era. L’hotel dove viveva adesso costava poco, ma ovunque palesava una miseria che proprio non riusciva a trovare romantica. C’era un solo bagno per piano, era sempre sporco e spesso intasato. I gatti di madame Rachou erano sempre in giro a pisciare e a lamentarsi, la vernice sui muri era piena di bolle e certe pareti erano così vecchie da essere diventate friabili e molli. Era sulla rive gauche, al 9 di rue Git-le-Coeur. Sempre pieno di sfollati e spiantati da tutto il mondo, senza una vita. La miseria gli pesava, non era mai riuscito ad abituarcisi e si stupiva di come invece gli americani sembravano proprio sentircisi a loro agio. Per qualche giorno era stato vicino di stanza un certo Bernard Moscovitch, non sapeva se era russo o americano, anche lui si teneva a galla scrivendo sotto falso nome per quello strozzino di Girodias. Lo aveva visto e si erano messi a parlare, niente di serio, solo qualche battuta, poi era sparito, o forse quella pazza di madame Rachou lo aveva cacciato, che era una cosa che poteva capitare. Una sera lo aveva rivisto in un caffè insieme a dei ragazzi canadesi, i loro sguardi si erano incrociati ma niente di più.
Marie invece la conosceva dai tempi di Pasadena, qualche volta aveva sventolato i cartelli tra una ripresa e l’altra. Una volta erano persino finiti a letto insieme, una sera che aveva vinto un incontro importante e aveva portato tutti fuori a bere, era sul serio convinto che ne avrebbe vinti degli altri, ma non successe. Poi era sparita e per puro caso si erano rincontrati a Parigi, dopo quasi un anno da quella sera. Era una ragazza strana e non sapeva se in condizioni diverse e con maggior fortuna, se ne sarebbe potuto innamorare.
Era ormai a spasso da più di mezz’ora e lo stomaco si faceva sentire, non gli era riuscito di trovare nessuno e non sapeva più dove cercare. Alla fine decise di riposarsi su una panchina e per la prima volta si sentì povero davvero. Doveva escogitare qualcosa o si sarebbe ritrovato davanti al portone di una chiesa. Forse lo avrebbe scritto un romanzo per Girodias, e forse se non lo aveva ancora fatto era perché temeva che se anche quello strozzino gliel’avesse rifiutato si sarebbe sentito davvero spacciato, così se lo lasciava come scialuppa, facendo solo la figura del coglione e del bigotto perché faceva la fame pur di non scrivere certa robaccia.
Pierangelo Consoli
mercoledì 18 febbraio 2009
I Sette Ministri
Allo stesso ministro sembrava non importare e non riusciva a stare in piedi, alla fine dovettero sparargli dall’alto verso il basso, come si fa con una bestia alla quale si vuol bene e non si vuole che soffra ancora.
Affrontarono la fine con coraggio, erano il vecchio regime che veniva eliminato ed era giusto che non si lasciassero andare. Mantennero una certa distanza dalla morte, e l’affrontarono con rigore. Sapevano che le cose non sarebbero andate meglio di come andavano prima, perché una crisi profonda come quella che si erano trovati ad affrontare non si risolve accoppando qualche ministro, ma tutto quel trambusto era una cosa nuova e la gente parve vederci una soluzione.
Fu una mattanza rapida, senza ultimi desideri. Nessuno di loro disse niente, e quando uno dei ministri, quello più esile, esperto di pubblica amministrazione, sembrò voler lasciare un messaggio, o semplicemente dar vita ad un estremo lamento per come erano stati trattati, il leader Mariano gli seccò la gola con uno sguardo, così di tutto quello che avrebbe voluto dire, non restò che uno starnuto. Qualunque cosa avessero detto, in quel luogo senza claque, si sarebbe mischiato alla polvere, mentre se qualcosa in quella cava sarebbe potuto rimanere, quello era certamente il silenzio. Lasciar parlare solo i passi della milizia, e i loro grilletti arrugginiti, solo il latrato dei cani in attesa di cibo servito al volo, lasciare sfogo a quegli attimi tanto contriti quanto tristi, questo sarebbe potuto rimanere, non il lamento o il rimprovero inutile dell’ultima ora.
A sparare erano in otto, ed erano tutti volontari, qualcuno si sarebbe beccato qualche pallottola in più.
I sette ministri indossavano il saio ufficiale, mentre i fucilieri, radunatisi in fretta, indossavano abiti civili e diversi. Non essendoci stato il tempo di escogitare una divisa, erano venuti a cambiare la storia con camicie a quadroni e pantaloni di velluto a coste. Erano all’incrocio senza cappello e le redini in mano. Quando fu il momento lo capimmo dagli uccelli che si sparpagliarono allarmati dagli scoppi dei fucili. Udimmo gli spari in lontananza e tutti ebbero solo voglia di tornare a casa.
Le rivoluzioni serie si fanno con le armi, perché da quelle serie non si torna mai indietro tutti interi.
La moglie di uno dei ministri, paradossalmente il più vecchio, che si occupava di agricoltura, aspettava un bambino. Per mesi non si era fatto altro che speculare. Si diceva che avesse pagato un ragazzo affinché gli desse un erede. Si era soliti aggiungere che lo avesse pagato più del pattuito, e che lo avesse poi costretto a lasciare la zona perché diversamente da quanto aveva immaginato, non ne reggeva la vista. Ma queste erano chiacchiere e nessuno poteva davvero sapere quanto fossero vere. Ciò che restava con certezza era una moglie gravida di troppo dolore e il desiderio di un figlio tanto a lungo covato che a niente era servito. Questi uomini non erano stati presi durante il sonno, strappati alle loro famiglie nel cuore della notte, ma per una barbara e forse anche sadica ragione, si era lasciato che sapessero, che trapelasse la notizia che presto sarebbe accaduto ciò a cui adesso assistevamo. Sapevano che non sarebbero scappati, e forse in qualche modo se lo auguravano, per poterli così più facilmente denigrare. Proprio perché lo sapevano, era probabile che ognuno di loro avesse fatto qualcosa che gli sarebbe mancato, come fare sesso o farsi una bella abbuffata, ma mi piaceva credere che fossero giunti alla risoluzione timorati e puri e non sudici e spavaldi.
I corpi furono ammassati uno su l’altro, e furono bruciati con la benzina. I cani ci restarono male e presero a guaire per il tanto spreco. A ognuno di noi sembrò oltraggioso non poterli piangere su una tomba, ma non lo dicemmo. Immagino che la storia in divenire tenda a voler cancellare quello che solo dopo con tanto sforzo cercherà di ricostruire e ricordare. Forse un giorno qualcuno avrebbe sentito il bisogno di chiedere scusa per quanto avveniva, ma sapevamo che nessuno di noi sarebbe mai vissuto tanto a lungo.
Pier Angelo Consoli
venerdì 16 gennaio 2009
Pugnali nei fumi lunari
Nella triste storia che si avvia alla conclusione, forse abbiamo dimenticato di dire la cosa più importante. Come avviene per ogni grossa metropoli dai ritmi febbrili, violenti e allucinati, dagli immensi viali, anche in questa, vivevano due persone che si stavano cercando da diverso tempo.
L’unica cosa che desideravano davvero era di amare nella più totale esplosione dei sensi, in modo assoluto. Ed è importante questo perché in una epoca sconfitta come la nostra, dove Amore è spesso ubriaco di languore in qualche isola sperduta nel Mediterraneo, è sempre più raro trovare due giovani che dopo il primo e unico sguardo incrociatosi per puro caso e per un solo attimo abbiano poi compreso che dovevano cercasi irrimediabilmente. Anche nei sogni. Ma dove si sono incontrati? Sono belli forse?Questo non c’interessa, quello che ora è importante è che Daniel dopo esser sfuggito a quel agguato demoniaco, perchè ormai di demoni pensava si trattasse, triste e combattuto come non mai, decise di telefonare a l’unica persona che in questo momento avrebbe potuto capirlo. Sua madre.
Entrò allora in un bar dove i network stavano parlando della pioggia, della situazione di emergenza proclamata dal sindaco e di quale scenario i metereologi andavano profilando nella città per le prossime ore. Subito dopo parlavano dei morti di Gaza. Naturalmente non vi portò la minima attenzione a nessuna delle cose che quel pagliaccio urlò per tutta la diretta. Anche il barista era col naso all’insù quando Daniel gli chiese di poter usare il telefono per una chiamata extraurbana, e una sambuca. La mamma non ebbe alcun dubbio: suo figlio aveva incrociato un dannato d’Amore, molto pericoloso e che sapeva trovarlo. E quindi, che cosa poteva fare? La risposta di quella megera mezza-turca fu esattamente questa: doveva seguire il fumo lunare. E riagganciò augurando al figlio di avere fortuna. Daniel sapeva benissimo che quelle parole che non significavano niente, dovevano avere un seguito, per forza. Si, doveva seguire qualcosa, ma cosa? Che cazzo è ora il fumo lunare, se la luna non c’è neanche in cielo!
Eppure..Uscì, dimenticò di pagare come sempre, salì sulla metro in direzione di Gare de Lyon, voleva vedere il fiume e poi chissà magari anche lei ripassava ogni tanto in quella strada..Ma doveva muoversi, si stava facendo tardi. Passò davanti Notre-Dame e nel cielo le nuvole erano sempre viola. Poi in una strada sul retro della piazza il suo cuore si fermò. Un pugnale di rose. Sotto un balcone di un vecchio palazzo si stava riparando la ragazza dagli occhi neri. Decise di andargli vicino, le avrebbe detto qualcosa, ma di tutto quello che poi si dissero non ne sapemmo più nulla. Sappiamo solo che si persero tra i matti e tra i borghesi di Parigi, tra scultori e bancari e politici radicalmente corrotti.Tra puttane e mariti fedeli. Tra cagne e fogne. Sfumarono nella notte e poi d’improvviso la luna nel cielo piegò le nuvole e le nascose dietro al mare per molti giorni ancora…Poco dopo un bambino che aspettava la metro con suo padre vide un uomo sui cinquant’anni elegantemente vestito di nero che camminava di spalle, perdendosi nel buio dei binari della metropolitana.
Lo Sceicco Bianco
giovedì 15 gennaio 2009
...il giorno dopo
Dalla parte sinistra della parete del salotto l’umido stava partorendo qualcosa di velenoso che avrebbe certamente ammazzato un elefante se lo avesse inalato, pensò in quel momento Daniel, steso sul divano mentre aspettava di potersi fare una doccia calda. La pioggia continuava a cadere minacciando di strisciare in casa sua. Di tutta quella notte finita solo all’alba gli vennero in mente gli occhi stanchi e quasi assenti di Suzanne, la cameriera del caffè Torrente, dove aveva passato quasi tutta la serata, per poi finire a letto con Lucilla, ora sotto la doccia. Insieme a due pittori conosciuti nella metropolitana aveva cenato con appetito in una tranquilla trattoria appena fuori il Quartiere Latino, scolato un paio di bottiglie di vino rosso e quindi si erano recati, per ripararsi dalla pioggia, al caffè, dove in attesa che il locale si riempisse avevano preso le carte da scala e naturalmente si erano messi d’accordo, in segreto, di giocare d’azzardo. Grappe carte e sigarette, tutto questo era durato senza che i tre se ne accorgessero per quasi due ore fino a quando al tavolo si avvicinarono, quasi per caso due giovani morette, ballando sulle note della fisarmonica che da qualche minuto aveva preso a suonare ballate gitane, in fondo al caffè.
Possiamo? Fece, dolcemente, la più alta, sedendosi a fianco di Marcello- ormai- disse-fin quando non smetterà di piovere dovremmo imparare a morire nei locali..
Perché morire?domandò Daniel alle due arrivate.
Ma non ribatterono e di tutta risposta decisero di ordinare da bere. Voi che prendete? chiese l’altra ragazza, che intanto si era tolta il cappello, mostrando dei foltissimi capelli neri. Una bottiglia di vino..E così avevano stregato la notte tra i fumi dell’alcool per finire poi sotto un ponte a fumare oppio. Erano in quattro ora, l’altro l’avevano perso nel caffè. Marcello accompagnava la moretta ad un motel, mentre Daniel e Lucilla avevano deciso di aspettare l’alba.
Ho finito sono pronta-fece Lucilla in quel momento- ma devo scappare comincia il turno fra dieci minuti, ti lascio il numero, che svolazzando si fermò sul mobiletto accanto al divano dove Daniel contava i soldi vinti a carte. Decise allora di chiamare qualcuno per farsi pulire casa. Dall’altra parte della cornetta gli avevano assicurato che entro dieci minuti avrebbero mandato un ragazzo filippino. Quando questi bussò Daniel ebbe un sussulto, si ricordò dell’incubo, poi degli occhi, di quella risata tuonante venuta dal fondo dei pozzi infernali, e infine di quella fanciulla che aveva intravisto nell’incubo e che doveva assolutamente trovare. Andò ad aprire e di fronte si trovò un ragazzo filippino che prese subito a lavorare. Dopo dieci minuti bussarono di nuovo. Il ragazzo andò ad aprire e di fronte si trovò, indovinate un po’, quello strano tipo, che si diresse verso la camera da letto, dicendo, seraficamente, buonasera signor Daniel, disturbo forse? …. Solo che ora nessuno di noi sta sognando. Dammi i tuoi occhi, mi occorrono: lei deve trovare me…Daniel sbarrò gli occhi e indietreggiò di qualche passo. Quel sinistro personaggio gli si fiondò addosso con le mani, pronto a strangolarlo. Il filippino scappò. Ma Daniel si liberò con una ginocchiata nello stomaco, e uscì di casa prendendo il cappotto. Dove vado?Non posso certo andare alla polizia mi crederebbero pazzo… Mi serve un’arma, una pistola devo trovarla a tutti i costi…..
continua......
Lo sceicco Bianco
martedì 13 gennaio 2009
dreams in the rain...
tutto questo sara' dimenticato,
come lacrime nella pioggia..
e' tempo... di fuggire
Che cosa desidera?-gli chiese Daniel senza troppa convinzione.
-Mi servirebbe una cosa..sono venuto apposto da molto lontano e..
Mi scusi – lo interruppe senza paura quel giovane dal crine fulvo- ma io non la conosco e non so proprio chi lei sia. Ma proprio mentre stava per chiudere la porta in faccia allo sconosciuto, una lacrima cominciò a rigare il viso di quell’uomo misterioso.
I due rimasero qualche attimo uno di fronte all’altro senza parlare. Poi lo sconosciuto prese a parlare di nuovo, stavolta però arretrando di un passo agitò dei guanti neri, assai consumati. E disse placidamente: - Se mi permetterete di entrare un minuto vi spiegherò in poche parole quello di cui ho bisogno.
-Prego entrate pure.
Il vecchio poté notare quanto quel giovane aveva in quel periodo in odio la cura della casa. Tutto era in un disordine quasi insano. Il divano somigliava ad un grosso pezzo di formaggio mangiucchiato. Un odore di muschio e di tana copriva tutti gli altri odori mentre pile di libri circondavano come un’ alcova il suo letto. Quadri e disegni davano un qualche segno di distrazione e poesia a quelle tre stanzette umide, mentre il resto era coperto o da sporco o da polvere che sarebbe poi diventata altro.
I due intanto si erano seduti in cucina al piccolo tavolo e Daniel preparava una tisana all’arancio.
Dopo che ebbe fatto il primo sorso il vecchio disse di chiamarsi Osvaldo, raccontò che veniva da un paesino della Germania e che era cieco da alcuni giorni.
-Ah- fece Daniel- così lei è tedesco e parla così bene l’italiano.
-Mia madre era italiana di origine siciliana precisamente. Ora a me servirebbero i suoi occhi. Il motivo non posso rivelarglielo ma può immaginare perché mi son permesso di chiederli proprio a lei..
-A dir la verità non l’ho compreso. Ma comunque i miei occhi mi occorrono, devo finire di leggere tutti quei libri che vede laggiù.
-Ah, ma se è per questo li potrà leggere con tutta tranquillità. A me servono per qualche ora giusto il tempo che smetta di piovere e poi glieli riporterò.
-Non le credo e comunque no.
A questo punto i due si alzarono e Daniel andò verso la porta, la aprì e fece cenno al vecchio di uscire.
-Bene, mi dispiace- fece il vecchio, ma lei con quegli occhi non amerà mai nessuno. La sua anima è cieca e vede io pur essendo cieco vedo meglio di lei. Volevo solo provare i suoi occhi e far carezzare le labbra di una fanciulla, dai capelli neri come gli occhi. La sua pelle..
-Davvero?ecco li prenda.. la prego io aspetterò qui..Il vecchio scappò con una risata mefistofelica quando Daniel di colpo si svegliò e capì che s’era di nuovo addormentato di pomeriggio. Si tocco il volto e vide le sue mani. Dopo essere passato sotto la doccia si vestì con cura, prese l’ombrello e uscì di casa, dopo due settimane di pioggia, in cerca di quella fanciulla. La notte lo rapì come un sogno alato.
continua.....
Lo Sceicco bianco.
venerdì 2 gennaio 2009
Buon 3009 a tutti
lunedì 27 ottobre 2008
La terza verità
“Ahia! - disse a se stesso - pensavo fosse una strada tutta lineare e invece no! E ora dove vado?”
Cominciò a chiedere informazioni a chiunque passava di là, ma nessuno sapeva dirgli dove portassero esattamente quelle strade. Tutti erano incerti e dubbiosi circa la loro direzione e nessuno poteva affermare con sicurezza quale fosse la meta definitiva. Non sapendo quale strada prendere, il giovane si sedette sul ciglio e aspettò.
Dopo un po’ passò un vecchietto e il giovane chiese anche a questi dove conducessero quelle strade. Il vecchio, senza fretta, si sedette accanto al ragazzo e gli disse: “dipende. Tu cosa cerchi?”
Questi pensò un attimo e poi rispose sicuro: “la verità”.
Il vecchio scoppiò in una sonora risata e disse: “ Sei troppo giovane e troppo ingenuo ancora: non esiste la verità. Esistono le verità! Ed esistono le bugie.”
Il giovanotto guardò il vecchio con aria perplessa.
“Mettiamola così: – disse il vecchio osservando il suo confuso interlocutore – se vai a destra troverai bugie camuffate da verità; se vai a sinistra troverai verità che sembrano bugie; se vai a centro troverai mezze bugie e mezze verità….”
Il giovane, sempre più perplesso, lo guardò e gli chiese come potesse, allora, scegliere la via migliore da seguire. Il vecchio non parlò. Per tutta risposta, prese una mela dallo zainetto e gliela mostrò sul palmo della mano.
“Questa è una verità” disse semplicemente.
Tagliò la mela in due parti: “queste sono due verità”. La tagliò in quattro parti: “queste sono quattro verità.…”
“Mangiale tutte” disse poi al giovane. E il giovane, incuriosito ed attento, mangiò i quattro spicchi di mela lentamente, in silenzio.
“E ora?” gli chiese il vecchio.
“Non c’è più nessuna verità!” rispose il giovane sorridendo.
“Ti sbagli. Ci sono ancora tre verità e una bugia”.
Sempre più incuriosito, il giovane pensava attentamente, ma non riusciva a trovare le tre verità e la bugia. Il vecchio sorrise.
“La prima verità – disse - è che tu hai la pancia piena e io sono rimasto digiuno. La seconda verità è che io sono rimasto digiuno e tu hai la pancia piena. La bugia è che la mela l’abbiamo mangiata tutti e due.”
“E la terza verità?” chiese il giovane guardando il vecchio.
“Dov’è ora la mela?”
“Nella mia pancia” rispose sicuro il ragazzo.
“Ecco! La verità è dentro di te. Ed è in quella direzione che devi andare”.
Il giovane scrutava il vecchio per cercare di capire.
“Non devi seguire strade che portano ad altre verità, ma segui solo la strada che porta alla tua verità. Se pensi che una di queste tre strade porti là, scegli quella” spiegò allora il vecchio.
Il giovane rimase un attimo pensieroso, poi salutò il vecchio, girò le spalle e s’incamminò per la strada da cui era venuto.
“Dove vai ora?” gli chiese il vecchio.
“A coltivare mele”
Talìa