La mattina era iniziata così, come al solito,
sipario che si apre cigolando su vite insulse,
su Abitudini di Vita, su Vizi di Vita.
Meccanismi poco oliati che stridono nelle loro tristi guide.
Questa non è vita, ne è solo un surrogato, un succedaneo, una banale imitazione: un’Abitudine, appunto.
Si vive per ignavia, si vive per accidia, vivere per non affaticarsi a morire…
Ogni volta che i suoi occhi si aprivano, - appena fuori dal regno dei sogni, e prima ancora che razionalmente iniziava a cercare di carpirne brandelli - un pensiero gli si affacciava fisso alla mente: i Delfini.
E se fossimo delfini?
L’aveva spiegato a tutti ormai, a tutti quelli che gli capitavano a tiro, ed ognuno di questi, sempre rispettando in sua presenza la sua condizione di Don, - “Ma sì Don Ignazio è proprio come dicete vossia”, “Don Ignà vui site nu genio” - avevano iniziato a prenderlo per pazzo. Quella che più soffriva di tutte queste <<Fanciullerie>> - come era solita chiamare questa, e le innumerevoli altre stranezze del suo consorte – era Donna Cesira Trinchetta maritata Gussaldo.
“E chi se lo sarebbe aspettato?”, “un ottimo partito!” “un possidente!” “un uomo d’onore!”
A sentire le comare, - “Ah! Serpi malevole!”. In verità Don Ignazio Gussaldo, da celibe rappresentava il non-plus ultra del paesino di Rocca Pisticca: ricco, bello, alto, biondo. A quei tempi poi, tante storie non riuscivano a trapelare la pesante coltre di silenzio che la Baronessa madre aveva steso sugli “interessi” del figliolo. Cesira in un moto di rabbia velata da una lieve vergogna rammentava perfettamente perfino gli apprezzamenti delle più smaliziate, che parlavano anche di certe sue doti segrete; ad esempio si ricordava pari pari le parole di Filumena Liguri, - “A’Cesì, un foco, un foco!”. “Un foco sì, ma de paglia, de cerino, pronto ad accendersi veementemente per un nonnulla, per poi ancora più repentinamente placarsi”. <<Conigliuzzo mio>> aveva iniziato a chiamarlo, e dietro questo tenero vezzeggiativo si celava l’astio, l’insoddisfazione e l’invidia più nera.
Intanto il pensiero di Don Ignazio, come ogni mattina, proseguiva ponendosi domande e fermandosi alle spiegazioni, come un treno che pur facendo varie fermate minori, è diretto verso la sua meta, verso una grande stazione di città: Quel dì mai paragone fu più azzeccato di questo, ma procediamo con ordine.
Come dicevamo, i delfini devono ricordarsi di respirare, altrimenti ciccia.
Il cuore è diverso.
Si sa, il cuore va da sé, pompa e ripompa alacremente senza batter ciglio.
Bel tipo il cuore, ve lo raccomando; non ti fa un favore nemmeno se piangi in Turco, e soprattutto, non guarda in faccia a nessuno.
Tanto per rendere il personaggio, se ne fotte anche di Don Cervello. E dico solo questo.
Ora, tornando ai delfini; e se anche noi dovessimo ricordarci, - non dico del cuore, che sarebbe troppo complicato –, ma, ecco, se anche noi uomini dovessimo preoccuparci coscientemente di respirare?
Don Ignazio si astraeva ore ed ore, giornate intere, nelle sue elucubrazioni, e – corpo di mille alambicchi – nei suoi esperimenti. Perché lui, sì, lui Don Ignazio Gussaldo si riteneva un uomo di scienza con tutti i crismi, e quindi tutto ciò che teorizzava doveva sperimentarlo.
Quindi, anche ponendo il caso, di avere una capacità polmonare superiore all’attuale, in grado d’incamerare aria diciamo per un’ora d’autonomia, non ci si poteva fermare mica lì, si doveva provare con esperimenti la validità della tesi. Altrimenti sarebbe stato una pagliacciata, né più né meno delle ciarle delle vecchie e dei divertissment che tanto erano cari ai suoi insulsi figli, nati e cresciuti nella bambagia di una vita non vera, sprecando il giorno caracollando a cavallo e la notte dietro a merletti svolazzanti.
Gli esperimenti di Don Ignazio, da qualche mese a quella parte, approfittando anche della bella stagione, sussistevano in lunghe abluzioni nel piccolo golfo di mare racchiuso da una splendida caletta, proprietà dei Gussaldo fin da quando la torre normanna svettava sulla punta ovest del promontorio, a guardia di pirati saraceni che in realtà non erano mai arrivati. Anche la torre, come tutto lì attorno, era suo. Tutto ciò che occhio nudo riuscisse a vedere, ponendosi di spalle alla marina fino a 40.000 ettari nell’entroterra era roba dei Gussaldo, e se proprio non si riusciva ad abbracciare tutto con un solo sguardo, come si dice, “Carta Canta”.
Questi lunghi bagni avevano un che di particolare, di scientifico avrebbe rettificato Don Ignazio; non nuotava, non faceva il morto a galla, niente di tutto ciò. L’unico esercizio che ripeteva con una precisione cronometrica erano delle lunghe apnee. Un giorno un fittavolo passando di lì, in quella giornata assolata ma fresca, ammirava estasiato il mare piatto come una tavola, e si avvicinò alla riva, pensando bene di liberarsi anima e corpo di fronte a quello spettacolo di Dio. Senonchè, appena calatosi le braghe uno sbruffo di schiuma ruppe l’immobilità dell’acqua, e un mostro metà uomo e metà pesce ne uscì ansimando. Era sicuramente un Tritone, il Demonio in persona che se l’era venuto a prendere per colpa dei suoi “vizietti”. Gasparo, questo era il nome del fittavolo, s’inginocchiò tremante, non riuscendo a tenersi dentro quello per cui s’era calato i calzoni, e iniziò a biascicare tra le lacrime, delle suppliche. In quel momento il Tritone si mutò in Don Ignazio Gussaldo, che giunto a riva lo apostrofò “Bestia di un Gasparo, che piangi? Da dove giunge cotal puzzo nauseabondo? Ah sei tu!
Somaro di un bifolco, ti sei cagato addosso!! Nemmanco le fiere arrivano a questo stato di abbrutimento”.
“Piuttosto, mentre ti dai una sciacquata a te ed alle tue braghe ti farò dono di un briciolo della mia scienza, e ti metterò a parte delle mie ultime scoperte.” Gasparo entrò in mare fino al ginocchio come se stesse entrando in un covo di serpi, e riluttante iniziò a lavar via il tanto vituperato prodotto del suo corpo.
“Caro il mio Gasparo, sto lavorando a qualcosa di universale, qualcosa che sarà fondamentale nella vita di tutti, dell’intiero consorzio umano e per cui i posteri mi omaggeranno come un novello Leonardo. Macchè Leonardo! Il Vinciano non sarà niente al mio confronto.” Poi abbassando leggermente il tono della voce disse: “Sto lavorando sull’Aumento della Capacità Polmonare…Pensa che rivoluzione! ”.
“Su…cosa, Padrone?” scappò detto a Gasparo, e quello fu un grosso errore.
“Ma certo! Cosa vuoi che ne sappia tu di delfini, di capacità polmonare, di apnea, di scienza, tu, tu pensi solo a zappare, a mangiare, a fottere e sfornare figli come fossero pagnotte, e defecare; e manco quello pare che ti riesca bene, zotico. Ma voi, voi ignavi siete la rovina del mondo…ma del resto se siete stupidi non è del tutto colpa vostra…quello che cercavo di dirti è che ho trovato il metodo per Ingrandire i Polmoni”.
A questo punto Don Ignazio si aspettava un cenno d’assenso, un sorriso, un qualche gesto, e invece il povero Gasparo rimase lì con quella faccia sdentata da ebete senza proferir verbo, e senza che da quel ghigno scolpito dal sole trasparisse emozione alcuna.
Stizzito Ignazio si allontanò farneticando e da allora e per molti giorni si chiuse in un mutismo nervoso e tetro. Nemmeno la sua dolce Cesira riusciva a capirlo, a confortarlo: poteva il mondo essere solo questa ottusa palla di fango, sangue e dolore? Davvero era solo questo, o bisognava credere al paradiso della Chiesa “Non vi affannate in questa vita, chè la vera vita è ancora al di là da venire.” Sì e allora perché c’erano i principi della chiesa? Perché non facevano altro che chiedere soldi? Perché prima di unire sto scarcagnato pezzo di terra chiamata Italia, avevano dovuto combattere il Papa, che tuttora aveva un suo Stato e dettava sue leggi?
Ah lui no! Lui non si sarebbe fatto abbindolare.
E così mattina dopo mattina, la prima mezz’ora, appena sveglio pensava ai delfini, ai polmoni, all’aumento della capacità polmonare, ad una società ed una cultura parallele, fondate sulla necessità di respirare volontariamente. E fantasticava di città e popoli, di culture e società, di viaggi ed avventure.
Quella mattina ci stava pensando più del solito, era nervoso perché Cesira come al solito, per farlo alzare aveva iniziato a parlare della messa del mattutino, di com’era stato bello e commovente, con i frati gregoriani arrivati apposta dal convento di Sofferello a Monte per allietarli con i loro cori. E poi la chiesa addobbata di fiori bianchi per le prime comunioni , e poi….
“Basta Cesira.”, aveva detto lui, senza urlare, ed era rimasto come congelato nel gesto, con gli occhi corrucciati, il labbro inferiore pendulo e la mano destra fuori dalle coperte rivolta verso la moglie, aperta contro Cesira che continuava a ciarlare…
Don Ignazio Gussaldo ogni mattina che nasce pensa a i delfini,
ai polmoni, alla scienza, e a quello che ci può portare d’utile,
e proprio mentre pensava ai suoi amati delfini che saltavano liberi tra i flutti…
…proprio come un tuffo…
Nino Lo Gnomo
stupendo racconto
RispondiEliminanoto che su questo blog molti si cimentano nella scrittura perchè non farne una raccolta? comunque molto bello il racconto bravo
RispondiEliminamolto interessante. Grazie
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