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mercoledì 7 settembre 2011

La Confraternita del Purgatorio di Casanova attraverso lo statuto del 1786 - Parte II

Lo statuto che sostanzia la nuova fondazione della confraternita è preceduto da una supplica, redatta e sottoscritta dal notaio Giuseppe Matano, sottoscritta dal parroco della chiesa di san Pietro, sede della congregazione, Pasquale D’Errico, da altri notabili locali e da gente comune. Ciò a dimostrazione che nella confraternita risiedevano diverse categorie sociali della popolazione di Casanova, in virtù dello spirito di eguaglianza che vi regnava. La lettera porta a tergo il visto del Regio Cappellano Maggiore. Allo statuto, invece, furono aggiunte alcune condizioni e la clausola della sua non modificabilità previo il beneplacito reale da Isidoro Arcivescovo di Tarso, nel rispetto delle Reali Disposizioni del 1742 e del 1776.
Alla supplica seguono le regole della confraternita riassunte in nove articoli. La lettura del documento è interessante per comprendere com’era organizzata la struttura associativa. Nei diversi articoli sono dipanate due questioni fondamentali: le attività liturgiche finalizzate al suffragio delle anime del Purgatorio che i confratelli dovevano rispettare e l’organizzazione stessa della confraternita. Per quanto riguarda la prima questione, la “regola” stabiliva i comportamenti dei confratelli nelle diverse azioni che essi potevano e dovevano svolgere nel rispetto dei principi religiosi.

In questi punti si parla, infatti, della recita domenicale e nei giorni festivi dell’officio dè Morti e la recita del rosario tutte le domeniche sera in suffragio delle anime purganti. Queste manifestazioni prevedevano la partecipazione di un padre spirituale. L’organizzazione interna presumeva una figura cardine, individuata come priore. La funzione del superiore della confraternita era una carica annuale ricoperta da un membro della confraternita stessa, la cui elezione avveniva la prima domenica del mese di luglio.

A tal proposito, è d’uopo ricordare che nella confraternita, pur essendovi diverse figure istituzionali, tutte le decisioni importanti erano prese in ambito assembleare con la maggioranza dei voti dei presenti.
La votazione avveniva sempre a scrutinio segreto. L’assemblea eleggeva l’amministrazione della confraternita che, pena la decadenza, aveva dieci giorni per rendicontare l’operato della precedente amministrazione. Oltre al priore, eletto tra una rosa di nomi stabilita da tre “confratelli probi” nominati dal superiore uscente, erano eletti due assistenti, un segretario, un cassiere, due “razionali” col compito di supervisione dei bilanci della precedente amministrazione, e il “maestro dei novizi”.

Un ruolo molto delicato all’interno della confraternita era assunto dal Cassiere, che svolgeva la funzione di amministrazione dei beni e delle entrate che giungevano a beneficio della struttura. L’operato del cassiere era comunque vincolato al parere preventivo dell’amministrazione e dei confratelli.
Qualora il cassiere doveva investire piccole somme di danaro non superiori a 30 carlini, era tenuto a chiedere il consenso congiunto del Priore, degli assistenti e del segretario. Per somme superiori, invece, occorreva l’assenso dell’assemblea dei confratelli.

La confraternita, come stabilito dalle nuove norme frutto degli accordi tra Stato e Chiesa, non poteva acquistare beni con i propri fondi (Real Disposizione del 19 giugno 1776) e gli amministratori non dovevano avere debiti nei suoi confronti, tanto meno potevano avere rapporti di parentela fino al terzo grado con quelli uscenti. Si dovevano rispettare le mansioni proprie degli ecclesiastici che comunque erano diffidati dall’entrare nelle questioni della congrega. Il priore nominava il sacerdote che doveva presiedere alle funzioni sacre. Il numero dei confratelli doveva essere di 33, numero degli anni di Cristo e dei martiri, e la quota annuale di iscrizione ammontava a trenta carlini (come i denari, con i quali l’Iscariota, amministratore del gruppo degli apostoli, vendette Gesù ai romani).

L’ingresso di nuovi adepti poteva avvenire solo con la fuoriuscita di quelli già presenti all’interno della struttura per cause naturali o per espulsione. Il confratello, infatti, per non essere espulso doveva garantire la presenza in tutte le manifestazioni della Congrega salvo giustificati motivi. L’iscritto doveva partecipare alle adunanze e alle celebrazioni religiose, accompagnare il Sacramento agli infermi, accompagnare nei funerali i confratelli o le consorelle defunti prima della inumazione nella chiesa, far celebrare messe di suffragio per i confratelli estinti e che erano in regola con la retta, intervenire materialmente in favore dei poveri del paese dando però priorità ai confratelli. La prima ammenda per le assenze ingiustificate ammontava a mezza libbra di cera, per tre assenze al fratello veniva negato il Suffragio e, infine, se recidivo -su proposta del priore- l’assemblea, con la maggioranza dei voti ne decretava l’espulsione.

Uscito un confratello poteva entrarne uno nuovo. La formazione del neofita era compito del Maestro dei novizi e durava sei mesi dopo i quali, se non aveva fatto assenze ingiustificate, il maestro lo proponeva al priore, che a sua volta lo proponeva in assemblea, in seno alla quale si stabiliva se era degno d’indossare uniforme e accessori distintivi della Confraternita. L’acquisto della tonaca era a carico del fratello. Oggi la cappa della confraternita è una veste con cappuccio bianco con una mantellina nera che riporta, a sinistra, l’impronta con la Vergine del Suffragio. Nero è anche il cordone che cinge la tonaca.

Contestualmente alla nuova fondazione la confraternita, che evidentemente disponeva di discreti capitali, fece realizzare una propria cappella adiacente alla chiesa, dove per secoli aveva operato, e all’interno ospitò il Monte dei Morti. L’evento è celebrato nella lapide apposta nel tempietto che recita:

D.O.M.

AEDICULA QUAM SPECTES

SOLI EST INNIXA PIETATI

SODALIUM MONTIS MORTUORUM

CASALIS CASANOVAE

ANNO REPARATAE SALUTIS

MDCCLXXXVI

PAR.CO D. PASCHAL ERRICO

Tratto da: C. VALENTE, Una confraternita nell’antica diocesi di Carinola. La Confraternita delle Anime Sante del Purgatorio di Casanova di Carinola, Marina di Minturno 2004.

L’autore

Antiche confraternite laiche nella Diocesi di Carinola - parte I

In circa sette secoli di vita, la diocesi di Carinola ha visto la presenza, all’interno dei vari centri interessati dalla sua giurisdizione, di diverse confraternite, alcune delle quali ancora oggi sopravvivono. Le realtà antropiche (spesso solo piccoli villaggi) dell’ex diocesi calena erano: santa Croce e san Bartolomeo (uniti sotto la chiesa parrocchiale di santa Croce), san Donato e sant’Aniello (uniti sotto la chiesa parrocchiale di san Donato), san Ruosi e Ventaroli (uniti sotto la chiesa parrocchiale di S. Maria de Episcopia sostituita nella funzione nel 1722 dalla chiesa dei santi Filippo e Giacomo), Nocelleta (oggi Nocelleto, sotto la chiesa parrocchiale di san Sisto), Casale (con i suoi tre abitati - Santo Janni (san Giovanni), Casale di mezzo e Vignale, soggetti alla chiesa parrocchiale dei santi Giovanni e Paolo), Casanova (con i suoi tre abitati -Casanova, Carani e Lorenzi- sottoposti alla chiesa parrocchiale di san Pietro), Falciano (con i suoi due abitati di Capo e Selice sottoposti rispettivamente alle chiese parrocchiali di san Pietro e dei santi Rocco e Martino) e infine la Terra di Mondragone (con i suoi tre nuclei abitati di Mondragone, sant’Angelo e san Nicola, sottoposti rispettivamente alla Collegiata di San Giovanni, di san Rufino intra moenia, di sant’Angelo e di san Nicola).

Numerose realtà, dunque, caratterizzate dalla profonda povertà del luogo, soffocato da un rigido sistema feudale e da condizioni d’insalubrità. Fattori, questi, che per secoli hanno frenato lo sviluppo di queste terre. Volendo tracciare una cronistoria delle congregazioni del territorio attraverso le sparute fonti a tal riguardo, possiamo individuare le più antiche confraternite a partire dalla fine del XVI secolo. Grande aiuto alla ricerca è offerto dalle relazioni sullo stato della diocesi (Relationes ad limina) che i vescovi caleni, a partire dal 1589, dovevano presentare alla Sacra Congregazione del Concilio a Roma.
Le relationes ad limina furono lo strumento col quale la Chiesa, uscita dal Concilio di Trento (1545-1563), cercò di controllare l’operato e lo stato delle diocesi attraverso una descrizione delle istituzioni ecclesiastiche e della vita religiosa, a cura dei vescovi attraverso visite triennali delle diocesi di loro pertinenza.

Nelle “relazioni”, quindi, si descriveva non solo lo stato materiale delle diocesi, ma si dava traccia anche dei rapporti tra il vescovo e il Capitolo diocesano, dei rapporti con i religiosi locali, del funzionamento dei seminari, degli ospedali e di quant’altro rappresentava una struttura della chiesa operante nella diocesi, ivi comprese le confraternite dei laici. Attraverso questi preziosi documenti è possibile ricostruire lo stato delle diocesi. Nel caso di quella carinolese emergeva la triste realtà poc’anzi accennata, tanto che nemmeno la chiesa locale possedeva rendite cospicue.
Il regime di povertà, quindi, era piuttosto diffuso. In molti casi, infatti, furono gli stessi vescovi ad impiegare i propri denari per l’abbellimento della sede episcopale o di altre chiese del territorio diocesano. Prima di quella data, quindi, non è possibile rintracciare documenti che attestino la presenza nel territorio di associazioni cattoliche, lasciando tutto a ipotesi discutibili.

Nel 1590 il vescovo Nicola Antonio Vitellio riferisce, nella sua relazione, della presenza nella sua diocesi di alcune confraternite, quali: del S.mi Rosarij, di S.ti Rocchi, di S.ti Pauli; mentre a Carinola risultavano attive le confraternite del Sanctissimi Corporis Christi e dell’Annunciatione. Nella relazione del 1607, invece, risultano attive quelle del SS. Corpo, del Rosario e dell’Annunciazione e quelle del SS. Corpo e del Rosario nella chiesa dei frati francescani (complesso dell’Annunziata, ora di san Francesco) nella “Terra murata” di Mondragone.
Si può affermare, alla luce delle due relazioni sopraccitate, che dalla fine del XVI secolo nel territorio carinolese diverse erano le confraternite attive. Non è da escludere, però, che le stesse fossero attive prima di fine XVI secolo, com’è probabile che altre ve ne fossero state, ma che alla data della relazione di mons. Vitellio erano state ormai già destituite.

Del resto, queste associazioni laiche erano fortemente legate al contesto sociale, politico ed economico delle realtà in cui sorgevano e, se queste ultime non erano molto ricche, si assisteva al frequente “formarsi e concludersi” e a volte ricostituirsi a distanza di anni di tali movimenti legati alla preghiera e all’assistenza ai bisognosi. Ciò fa comprendere, in modo inequivocabile, quanto vivo, forte e costante fosse il “bisogno di Dio” nel territorio preso in esame. Bisogno tanto pressante da impegnare le popolazioni di queste terre, sebbene perlopiù povere e impegnate nel lavoro dei campi e della pastorizia per quasi tutto il giorno, nella ricerca di luoghi “fisici” oltre che spirituali per adorare il Padre. Stessa sorte, dunque, ha potuto subire la Confraternita delle Anime Sante del Purgatorio operante nella chiesa di san Pietro di Casanova. La realtà di Casanova doveva risultare alquanto attiva dal punto di vista religioso se, agli inizi del XVIII secolo, nella chiesa parrocchiale agivano ben tre congregazioni.

Da una descrizione dell’edificio parrocchiale del 1690, infatti, risultano attive nella chiesa le seguenti confraternite: del Monte dei Morti di Roma; del SS. Rosario unita al Santissimo. La confraternita del Monte dei Morti disponeva di un altare dedicato alla Vergine del Suffragio, posto sulla parete di fondo della navata laterale sinistra partendo dall’ingresso. L’altare era utilizzato per svolgere tutte le funzioni proprie della confraternita. Vi era anche un economo, col compito di provvedere alle spese e agli introiti.
Le entrate erano date da alcune somme a cadenza fissa e, quando queste venivano meno, la confraternita traeva sostentamento dalle offerte caritatevoli. Sempre nella chiesa, sulla parete di fondo della navata laterale di destra vi era l’altare della confraternita del SS. Rosario, unita a quella del Santissimo, ognuna con proprio economo e con una rendita annua di cinquanta ducati.

La confraternita del Purgatorio, al 1690, possedeva un altare nella chiesa di san Pietro dedicato alla Vergine del Suffragio (una tela di buona fattura dell’artista Geronimo Boccia, che ancora oggi si conserva nella chiesa, posta sulla parete di fondo della navata di sinistra) e cosa ancora più importante era legata al Monte dei Morti di Roma. Da ciò che resta nella chiesa parrocchiale, si può affermare che la Confraternita era abbastanza ricca, visto che la sua cappella era dotata di un pregevole altare in marmi policromi del XVIII secolo. Anche la confraternita di Casanova, come quelle del SS. Crocifisso e del Monte dei Morti della vicina Sessa Aurunca fondata nel 1575 e di quella della Rocca di Mondragone, era legata all’Arciconfratrenita del SS. Crocifisso in san Marcello al Corso, a Roma, la cui origine risale al 1519.

Essere legati ad una confraternita più grande implicava vantaggi di diversa natura per la confraternita “satellite”. Per ciò che attiene al Monte dei Morti si trattava di un’istituzione con lo scopo di raccogliere e gestire offerte e lasciti, onde poi utilizzarli per fini caritatevoli e per il sostentamento della congrega a cui era annesso. All’atto della nuova fondazione della confraternita casanovese nel 1786 all’interno della struttura esisteva un proprio Monte dei Morti. Circa l’origine della confraternita casanovese le tradizioni locali ne fanno risalire la fondazione prima di quella di Sessa Aurunca.

Purtroppo, niente di documentato ci porterebbe a rendere certa tale tesi e, pertanto, considerare quella in esame come la confraternita più antica della diocesi di Sessa in cui Carinola rientrava e rientra tutt’oggi, a seguito della soppressione della sede episcopale avvenuta nel 1818. “Antica” è, tuttavia, l’aggettivo usato per qualificare la confraternita nella Supplica del 1786 indirizzata a Ferdinando I di Borbone per farne accettare lo statuto presentato alla Real Camera di santa Chiara, organismo che i nuovi sovrani di Napoli sostituirono al Consiglio Collaterale, massimo organismo politico, amministrativo e giudiziario del viceregno. Alla supplica fu allegato il documento in cui si esponevano i fini religiosi, caritatevoli e le regole della Confraternita delle Anime Sante del Purgatorio. Nel territorio di Carinola solo due confraternite presentarono lo statuto per il riconoscimento regio: quella di Casanova e quella della Confraternita dell’Immacolata Concezione di Carinola.

È d’uopo, a questo punto, capire perché l’archivio della “Regal Camera S. Clarae” fosse, a partire dalla metà del XVIII secolo, pieno di richieste di riconoscimenti da parte delle centinaia di confraternite esistenti nel Regno di Napoli. A seguito del concordato stipulato tra Papa Benedetto XIV e Carlo III nel 1741, le confraternite passarono sotto il controllo dello stato e, pertanto, dovettero presentare ufficiale richiesta riconoscimento.
Si trattava, quindi, di una chiara volontà da parte del sovrano borbonico di controllare tutti i numerosi organismi ecclesiastici fonte d’ingenti patrimoni i quali, in più occasioni, avevano fatto gola ai sovrani europei, specie durante i periodi di crisi.
Le grandi confraternite, infatti, nella loro secolare esistenza avevano incamerato patrimoni immensi e non tassabili, perché sotto il diretto controllo della Chiesa. Bisognava, dunque, porre un freno allo strapotere finanziario di queste istituzioni. Laddove non riuscirono i sovrani dell’Ancien Régime intervennero i cambiamenti sociali e politici a seguito dei moti rivoluzionari scoppiati tra XVIII e XIX secolo e alle leggi eversive. Con i nuovi assetti socio – politici questi organismi furono fortemente perseguitati, fino a decretarne soppressione e confisca dei beni in favore dello Stato. Furono risparmiate solo le confraternite delle quali erano ben noti i fini caritatevoli e i cui beni furono comunque accorpati alle Congregazioni di Carità.

Tratto da: C. VALENTE, Una confraternita nell’antica diocesi di Carinola. La Confraternita delle Anime Sante del Purgatorio di Casanova di Carinola, Marina di Minturno 2004.

L’autore

sabato 3 settembre 2011

Casanova nel XVII secolo. Una vicenda tragica!

…La realtà di questo piccolo casale (Casanova) era passata alle cronache del Vicereame napoletano nel 1647, in occasione della rivolta fomentata dal garzone di pescheria “Masaniello”.
Il 28 luglio di quell’anno, infatti,Carinola prende parte attivamente ai moti rivoluzionari divenuti più aspri a seguito dell’uccisione una settimana prima di Tommaso Aniello. Nella sommossa, a Casanova è assalito un giudice di Capua che si trovava nel casale con i suoi soldati. La vicenda assume carattere tragico allorché, imprigionati sia il giudice che le milizie, uno dei soldati viene decapitato. A Casanova giungono Pietro di Lorenzo con il caporale Francesco Ferraro e la sua compagnia. “Circa 150 persone si dirigono a Casanova, dove si scagliano contro il caporione Paolo Pampena. A questi, «quamplurimos ictus scoppittorum iniecerunt in persona Pauli, qui fuit mortaliter sauciatus». Scoppia una furibonda battaglia tra la compagnia del capitano Pietro di Lorenzo e i Carinolesi accorsi, «in quo inter alios fuit interfectus Franciscum Sasso».

Nella battaglia cadono molti rivoltosi, fra i quali Giovanni Prata, uno dei capi, a cui è mozzata la testa, infissa su una picca e portato in giro per Sessa”. Nel 1648 mons. Casvaselice scrive: ora per le calamità dei tempi e i bisogni della gente si è resa impossibile l’esazione dei fitti e quindi poterli mantenere (si riferisce al sostentamento dei ragazzi e dei docenti del Seminario diocesano). Né io potevo soministare gli alimenti, perché a causa delle stesse Rivoluzioni (il vescovo fa cenno anche alle huius Regni Revolutiones) non solo ho perso tutto il Patrimonio e il reddito ecclesiastico ma la stessa casa vescovile e tutte le suppellettili a causa de Ladri compagni di Papone, con grandissimo pericolo per la mia vita per ben due volte. Era un periodo di crisi totale. La povertà in cui versava la gente del territorio era enorme e la stessa chiesa si vedeva privata delle rendite che le spettavano (in primis delle decime).

A rendere poi ancora più triste la situazione, al di là della rivolta generale -sfogo naturale di una situazione di crisi che coinvolgeva tutto il Viceregno- vi era il fenomeno del brigantaggio. Nelle terre carinolesi scorrazzava Domenico Colessa originario di Caprile di Roccasecca e passato alle cronache del tempo come il brigante Papone (forse in ricordo di Giacomo Papone, rivoluzionario di Pignataro del XIV secolo), il quale non disdegnò di abbracciare la causa antispagnola divenendo addrittura strumento delle mire francesi a subentrare nella Capitale cavalcando l’onda del malcontento popolare e assumendo l’incarico di “Colonnello Comandante del rivoluzionario popolo napoletano”. Papone era un guardiano di capre che passò a svolgere funzioni di gendarme. Arrestato per brigantaggio nel 1646, fu rinchiuso nelle carceri della Capitale del Regno. Un anno dopo, durante la rivolta di Masaniello, riuscì a fuggire dalla prigione, dandosi alla latitanza.

Da quel momento ha inizio la sua carriera di brigante: unendosi alla folta squadra di ladroni che faceva capo a Giuseppe Arezzo di Itri, scorrazzò incontrastato tra il Golfo di Gaeta e l’Abruzzo. Preso dallo spirito della rivoluzione contro i padroni e la chiesa (tentò anche di irrompere nell’Abbazia di Montecassino) amò definirsi “Generale della Serenissima Repubblica napoletana” e conquistò intere cittadine tra cui Itri, Fondi, Sperlonga, Sora, San Germano e Teano. In quest’ultima città, però, gli abitanti opposero al Papone una fiera resistenza. Entrato i contatto nel ducato romano con l’ambasciatore francese Du Val gli fu offerta la possibilità, approfittando della rivolta antispagnola, di sostenere l’invasione nel Regno di Napoli. A tal proposito fu nominato “Colonnello Comandante del rivoluzionario popolo napoletano”. L’esercito di Papone fu sconfitto ben presto dalle milizie fedeli alla Spagna e il comandante fu arrestato, torturato e il 26 agosto del 1648 fu ucciso in Piazza Mercato a Napoli. Il suo corpo fu completamente smebrato e sparso tra Sora, Caprile e i paesi vicini.

La realtà urbana

…Venendo da Carinola per l’antica strada che, uscita dalla porta del Castello, si divideva in due rami, uno per Sessa, incontrando il Real Cammino quasi al confine del feudo, e l’altro che scendeva verso occidente, passando poco lontano dalla collina di san Francesco si entrava a Casanova, il primo dei tre abitati costituenti l’attuale casale di Casanova.
L’ingresso avveniva probabilmente in corrispondenza dell’attuale seconda traversa di Via Nazionale, dove è ubicato un edificio che conserva, attraverso un portale, una splendida testimonianza di arte catalana. Ma l’ingresso all’attuale Casanova doveva avvenire anche in corrispondenzadell’abitato detto delli Carani, da una seconda strada che, staccatasi dalla prima poco dopo Carinola, costeggiava la collina di san Francesco per entrare nell’abitato in corrispondenza dell’attuale via Ten. Montano.

Di lì, poi, si originava un bivio da cui partiva un’altra strada, ora nota come via Giardini. Rispetto a Casanova e ai Lorenzi, Carani era l’abitato più grande. A testimonianza di ciò giungono le numerose abitazioni storiche, alcune delle quali dotate di emergenze architettoniche, poste lungo le diverse stradine che salgono sulla piccola altura dove si è sviluppato l’abitato.

Il terzo nucleo, invece, prendeva nome dalla ricca famiglia dei Di Lorenzo, che in esso risiedeva. Ancora oggi, all’interno del piccolo nucleo storico, assume particolare rilevanza l’abitazione di questi patrizi originari anch’essi di Sessa. “ I due palazzi dei Di Lorenzo, Antonio e Lucrezia, sono ancora di immediata fruizione, d’impianto cinquecentesco, con interventi tardo barocchi di minore entità e qualità artistica, sono parzialmente adiacenti fra di loro al di sopra della via detta à S. Marciano.

Quello che rimane più in vista nel panorama dei luoghi è datato 1592 (anno probabile di fondazione di Bernardo di Lorenzo di Carinola) ed estende la sua compatta articolazione compositiva su quattro lati raccordati da un vasto cortile. L’edificio, posto in posizione strategica ai limiti di un fossato, tra le due vie della Gran Celsa e dell’antica chiesa di S. Lorenzo, è in gran parte conservato nel suo impianto originario, ma spazialmente modificato nei rapporti in altezza per un innalzamento della linea di gronda. Questo intervento, insieme alla scala nel cortile del lato destro, e alla terrazza al di sopra della cappella seicentesca, potrebbero essere stati realizzati negli anni in cui era proprietario Antonio di Lorenzo.

Il palazzo del marchese di Civigliano, marito di Lucrezia, è oggi in parte proprietà dei Budetti, e la sua facciata completamente decorata a stucco con disegni geometrici si impone nello spazio della piazza del piccolo agglomerato. Nell’androne d’ingresso si ammirano alcuni particolari affrescati emergenti dal bianco delle pareti e dalla copertura a volta racemi ed uccelli all’intorno dello stemma presunto dei Caetani di Civigliano”. Per quanto riguarda l’antica chiesa di san Lorenzo, nell’Onciario al foglio 492 è censita con l’appellativo di S. Lorenzo spreca mogliere e come appartenente al Beneficio del casale di Casanova, al tempo già allo stato di rudere. Il palazzo dei Di Lorenzo, poi, alla stregua delle dimore patrizie conteneva anche una cappella privata che, nel caso specifico, era dedicata alla Madonna del Carmelo e fu edificata da Antonio Di Lorenzo nel 1635.

Casanova, come gli altri casali di Carinola sinora analizzati, nonostante fosse costituito da tre nuclei possedeva un’unica chiesa parrocchiale, quella di San Pietro. Ancora una volta si ripete la consacrazione di un edificio di culto all’apostolo Pietro che, in alternativa a Paolo, era molto venerato in queste terre. Così come la tradizione locale vorrebbe che Saulo fosse passato per questi luoghi, non di meno reputa valida la tesi che anche Simon Pietro abbia soggiornato nelle terre, aiutando i primi cristiani nella diffusione della fede, prima di sedere sulla Cattedra di Roma per poi subire il martirio della croce, tra il 55 e il 67.

La chiesa parrocchiale casanovese, di cui si hanno notizie sin dagli inizi del secolo XIV , era una struttura non molto grande, ma comunque dotata di tutti gli elementi necessari per l’amministrazione del culto. In essa, poi, a testimonianza della sua particolare importanza, risiedevano ben due corporazioni ecclesiastiche il cui scopo era, oltre allosvolgimento dell’esercizio delle pratiche prettamente religiose (messe, processioni, preghiere particolari) e della moralità cattolica, l’assistenz ai bisognosi, l’accompagnare e provvedere ai riti per defunti, i suffragi fino all’impegno per fornire la giusta dote alle giovinette povere. Le confraternite, com’era consuetudine, si riunivano negli edifici di culto all’interno dei quali si ritagliavano degli spazi per svolgere le loro funzioni celebrate spesso da preti secolari o regolari.

La confraternita del Monte dei Morti di Roma, il cui scopo principale era quello di accompagnare i defunti, faceva capo all’altare della Madonna del Suffragio. Quella del Rosario, invece, la cui diffusione in generale è dovuta ai domenicani, aveva in dotazione una cappella dedicata alla Vergine del Rosario e probabilmente il suo scopo principale era devozionale, anche se in generale svolgeva mansioni tipiche di una congregazione. Pio V istituì la celebrazione della Vergine del Rosario nell’anniversario della vittoria navale riportata dai cristiani a Lepanto nel 1571, attribuita all’aiuto della Madonna, invocata con la recita del rosario.
Particolare, della confraternita casanovese, è la tela probabilmente realizzata tra i secoli XVII e XVIII che ornava il suo altare, raffigurante la Vergine col Bambino che dona ai frati domenicani il rosario, contornata dai Misteri di Incarnazione, Passione e Resurrezione. La confraternita del Monte dei Morti, invece, era meno ricca: possedeva solo un economo e si manteneva con i contributi dei confratelli e con la carità.

Quella del Rosario, invece, sembra possedesse addirittura un’altra confraternita, dedicata al Santissimo. Dalla relazione sullo stato della Diocesi carinolese redatta da mons. Vitellio nel 1590, tra le confraternite presenti nel territorio si registra anche quella del SS.mo Rosario. Lo scopo, sin dal secolo XVI, quando tali congregazioni furono particolarmente privilegiate dalla Chiesa, era di invogliare il popolo ad assistere alle funzioni liturgiche, nonché di accompagnare in processione il Sacramento. Per tale motivo, quindi, quella del Rosario possedeva due amministratori i quali, a differenza di quella dei Morti, avevano il compito di gestire un patrimonio più cospicuo, che andava dalla rendita certa dei 50 ducati annui, a tutta una serie di altri introiti, sotto forma di offerte e proventi su beni non facilmente censibili.

Non si dimentichi che, proprio per gli ingenti patrimoni incamerati che le confraternite gestivano senza nulla versare allo stato, in un primo momento attirarono gli appetiti dei vari governi. Poi si giunse alla loro chiusura e confisca delle proprietà …
La crescita della popolazione casanovese (nel 1709 il nucleo ammontava a 630 anime) portò alla realizzazione di un’altra struttura religiosa, costruita verso la metà del XVIII secolo nella zona detta “Cappelle” all’interno del nucleo dei Carani. Di questa parla per la prima volta mons. Del Plato nella sua relazione del 1752: “In Casanova, oltre alla chiesa parrocchiale c’è un’altra chiesa sotto il titolo di S. Maria della Pietà de iure patronatus laicorum”. La chiesa, sorta per volontà di una congregazione, oggi è dedicata alla Madonna delle Grazie ed è sede della confraternita omonima.

Tratto da:
C. VALENTE: L’Università Baronale di Carinola nell’ Apprezzo dei Beni anno 1690 -
Marina di Minturno 2008, pp. 55-60

L’autore

martedì 23 agosto 2011

Il Feudo de' Li Lorenzi

Nell' antico palazzo dove l’associazione onlus Circuito Socio-Culturale Caleno ha preso sede è passata la Storia con la S maiuscola, perché strettamente legata alle vicende del Regno di Napoli del periodo aragonese prima e del vicereame poi, ma anche la piccola storia del carinolese e del sessano.
Con grande piacere viene proposta, a tutti coloro che non hanno partecipato al Lunarte o non sono riusciti ad avere il depliant storico, questa pagina con la speranza che essa possa stuzzicare la curiosità pubblica per una conoscenza e un rispetto sempre maggiori del territorio.
I lettori che la leggeranno, si renderanno conto che ci sono molti “forse” e molti “probabilmente”: ciò è perchè le ricerche storiche di questo antico borgo dei Lorenzi di Casanova sono tuttora in corso. La pagina proposta vuole essere solo un’anticipazione che, in futuro, oltre ad ampliamento, potrebbe anche essere soggetta a cambiamenti qualora si ritroveranno ulteriori documenti storici.

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Per circa tre secoli, per tutto il periodo angioino, aragonese e oltre, Carinola fu congiunta a Sessa da legami di vassallaggio. La Contea di Carinola era parte attiva del Ducato di Sessa e a molti patrizi sessani veniva assegnata, per particolari meriti soprattutto militari, la gestione di feudi anche nel nostro territorio in cambio del giuramento vassallatico che assicurava al signore feudale non solo obbedienza e fedeltà, ma anche il versamento di quote in natura e prestazioni militari in caso di bisogno.
La congiura dei baroni era già avvenuta e stroncata e Marino Marzano era morto da un pezzo quando, intorno alla seconda metà del XVI secolo (1500), Bernardo Di Lorenzo, nobile uomo d’armi sessano di stirpe normanna, accettò il viceducato di un feudo nella contea di Carinola e divenne il capostipite della famiglia Di Lorenzo carinolese. Il feudo, che era stato in tempi più remoti dei Toraldo, dei del Gaudio e dei Ratta (ora Razza), lo ottenne per via ereditaria dalla famiglia del Transo con cui era imparentato (forse la madre era una del Transo; la moglie era invece una Guevara) e che si era stabilita da Gaeta a Sessa con Bonomolo del Transo nel 1495, per parentela contratta con i Marzano

Non sappiamo ancora se il feudo avesse un nome specifico (San Marciano? San Lorenzo?), ma di sicuro la famiglia Di Lorenzo legò il suo nome alla zona edificando, con Bernardo, il piccolo borgo che fu da allora chiamato LI LORENZI, dialettizzato in Laurienzi dal latino De Laurentio, come il cognome veniva registrato nei documenti ufficiali (con diverse varianti, devo dire).

Il borgo, anche se isolato da Casanova e a cui si accedeva per mezzo di un ponte levatoio, era perfettamente autonomo, perché Bernardo vi fece costruire stallaggi per le bestie, alloggi per i soldati e per i coloni contadini, un frantoio per l’olio e torchi per il vino. Non mancavano pozzi e acqua corrente incanalata da una sorgente per i quotidiani usi degli abitanti e per l’irrigazione dei campi. L’edificio principale, ad uso più che altro militare ed amministrativo, fu terminato nel 1592 e sullo stemma compare un unico albero illuminato dal sole a simboleggiare il capostipite di una gloriosa casata. Nell'albero, probabilmente un ulivo, sono messe ben in evidenza le robuste e profonde radici che stanno a significare da quale stirpe antica e solida Bernardo proveniva.

Lo stemma è chiaramente ripreso da quello della famiglia del Transo (ramo di Tropea) che consiste a sua volta in un albero di ulivo su tre colli, il cui motto era: sicut oliva in domo Domini (come ulivi nella casa del Signore), ma anche frangor et non flector (mi spezzo, ma non mi piego).
Il motto che Bernardo adottò per la sua casata fu degno del personaggio: fulgura timeo, volendo significare che non temeva nessuno, solo le folgori (divine?). Il palazzo aveva ed ha, al confine con la strada, una piccola cappella gentilizia dedicata alla beata Vergine del Carmelo.

Bernardo poteva fregiarsi dell’appellativo di Duca essendo il feudo un viceducato e poteva amministrare la giustizia sul territorio di sua competenza nei limiti che gli erano consentiti. E lo fece con pugno di ferro. Nel suo palazzo non mancavano, infatti, le segrete sotterranee per l’incarcerazione dei colpevoli. Oltre a fornire il suo feudo di tutti i comfort dell’epoca, Bernardo forni anche le sue residenze di vie di fuga, che non potevano mancare in caso di attacchi nemici. Una di queste vie di fuga aveva l’uscita nel vicino dirupo e, purtroppo, è stata coperta recentemente dai lavori eseguiti alla Fontana Vecchia.

L’altro palazzo ad esso adiacente, era la residenza vera e propria. Lo stemma (anche questo ripreso dalla famiglia del Transo, ramo di Sessa e Napoli in cui compare un leone rampante azzurro in campo dorato) è più completo e offre una lettura abbastanza chiara. Su uno scudo sormontato da un elmo, che rappresenta la natura militare della famiglia, è sempre un albero a cui si appoggiano due leoni rampanti, i due eredi maschi di Bernardo: Pietro e Carlo Di Lorenzo.
I due fratelli, non sempre in pace tra loro, ebbero nel 1647 una controversia con la Diocesi di Carinola che finì a Roma.
La causa riguardava una cappella sopraelevata, adiacente il loro palazzo, a cui si accedeva tramite una scala esterna. Essi ebbero dal vescovo di Carinola, Mons. Girolamo Vincenzo Cavaselice, il permesso di costruire la cappella pubblica, ma non rispettarono l’accordo di lasciare l’entrata libera a tutti, mettendo dei cancelli sul ballatoio e aprendovi un balcone in modo da accedere direttamente dalla loro stanza alla cappella. Furono perciò accusati di aver trasformato la cappella pubblica in un oratorio privato e la Diocesi di Carinola ne minacciava la chiusura. In loro difesa, i fratelli Di Lorenzo sostenevano che i cancelli erano stati messi per proteggere la cappella dall’ingresso di animali.

Di Carlo per ora non abbiamo notizie, ma Pietro, come descrive il De Masi, fu uno dei più valorosi soldati al servizio del Re Ferdinando il Cattolico nelle rivoluzioni del 1648. Fu dal viceré creato Capitano della Sacchetta, ossia Capitano della Milizia a Cavallo del Regno. In zona, la sua fama era enorme per la lotta che quotidianamente faceva contro briganti e malfattori.
A Casanova, con una squadra d’armati di 200 uomini, affrontò ed uccise un certo Giovanni Prata, malvivente, che gli devastava i beni, e ne portò, in trionfo, la testa mozzata a Sessa. Inoltre, più volte neutralizzò le azioni del brigante Papone, alias Domenico Colessa, che tiranneggiava il sessano e il carinolese. Pietro ricevette diverse lettere di ringraziamento dal re in persona che è possibile leggere nel libro del De Masi.

Il Duca Bernardo, nel suo testamento, aveva espressamente stabilito che fosse seguita la legge ereditaria normanna del maggiorascato, ossia che il grosso dell’ eredità e i titoli nobiliari spettavano al primogenito, mentre tutti gli altri figli venivano equiparati a secondogeniti. Agli eredi di sesso femminile toccava la sorte di mediatrici, sposando rampolli di famiglie con cui era opportuno allearsi, o il convento. Ritroviamo diverse donne Di Lorenzo nel monastero di San Germano di Sessa o di Santa Caterina in Aversa.
La legge del maggiorascato fu seguita da tutti i discendenti di Bernardo, anche se non sempre con tranquillità.

Il viceducato dei Lorenzi rimase in vita fino alla metà del 1700 quando, con l’istituzione del catasto onciario voluto da Carlo III di Borbone, tutte le proprietà furono pesantemente tassate e molte proprietà furono, di conseguenza, vendute. I Di Lorenzo persero, tra i tanti terreni, le Saucelle, ora Salicelle, e L’Incogna (o Ancogna), vastissima tenuta agricola al confine con il territorio di Cancello ed Arnone, che andò a far parte delle proprietà personali del re e divenne “pagliara reale” per la produzione della mozzarella.
La residenza ufficiale dei Lorenzi, i cui ultimi proprietari furono gli eredi dei marchesi di Cirigliano, ossia Lucrezia Di Lorenzo e il marito Nicola Gaetani d’Aragona, fu venduta ai coniugi Pietro Paolo Budetti e Felicia Spani. L’altra fu comprata dai Di Tora e poi dagli Sciaudone.

Di stirpe normanna, i Di Lorenzo, erano uomini d’armi venuti in Italia al seguito degli Altavilla, Ruggero e Roberto il Guiscardo. Stanziatisi inizialmente in Sicilia, raggiunsero il sessano seguendo le sorti militari sopratutto di Ruggero d’Altavilla. A Sessa erano presenti con Giovanni Angelo De Laurenzio già nel 1110 e con Guglielmo De Laurenzio nella metà del 1200.
Giovanni Angelo fu cavaliere di San Giovanni gerosolimitano (= di Gerusalemme), morto a Brindisi nella cui cattedrale è sepolto. La sua medaglia d’appartenenza all’ordine, con le sue armi ed il suo nome, era custodita dalla famiglia di Pietro Di Lorenzo.
Guglielmo De Laurenzio venne invece scelto, per prodezza e valore guerriero, quale Provveditore alle fortezze di Terra di Lavoro e dei tre principati di Capua, Salerno (Principato Citra) ed Avellino (Principato Ultra), dall’Imperatore Federico II.

Molto ancora c’è da scrivere, ma questo lo rimandiamo ad un prossimo futuro.

Concetta Di Lorenzo


Fonti:
Aldimari Biagio – Memorie istoriche di diverse famiglie nobili – Napoli 1691
Alfano Giuseppe Maria – Istorica descrizione del Regno di Napoli diviso in 12 province – Napoli, 1798
Archivio di Stato di Caserta – Tribunale di Ia Istanza - Documenti patrimonio famiglia Di Lorenzo
Archivio di Stato di Napoli – Documenti del Catasto Onciario
Brodella don Amato – Storia della Cattedrale di Carinola – Minturno, 2005
Brodella don Amato – Storia della Sagrestia della Cattedrale di Carinola – Minturno, 1996
Carrafa G. Battista e Muzio – Dell’historie del regno di Napoli – Napoli, 1572
De Fortis Muratori – Vite e famiglie degli uomini illustri – Napoli, 1755
De Masi Tommaso - Memorie Istoriche degli Aurunci – Napoli, 1761
Mugnos Filadelfo – Nobiltà del Mondo – Palermo, 1645
Paciaudi Paolo Maria – Memorie de’ Gran Maestri del Sacro Militar Ordine gerosolimitano – Parma, 1780
Porzio Camillo – La congiura de’ baroni del regno di Napoli – Milano, 1821
Tommasino Attilia – Sessa Aurunca nel periodo aragonese – Ferrara-Roma, 1997
Francesco Maria Villabianca – Sicilia Nobile – Palermo 1776





sabato 22 gennaio 2011

C’era una volta la montagna….


Montagna19
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        I nostri monti fanno talmente parte della nostra normalità paesaggistica che quasi non li vediamo più e perciò  non vengono tenuti nella giusta considerazione. Chi oggi li guarda, ci vede solo delle elevazioni pietrose, un po’ aride e non si sofferma ad alcuna considerazione speculativa. 
Chi invece riesce ad allungare lo sguardo oltre ciò che vede, verso periodi lontani  e realtà diverse, quando essi erano verdi e lussureggianti, ricchi di acque torrentizie e di popolo operoso,  comprende che non sono solo un elemento decorativo permanente, ma sono stati e sono un’intima parte della nostra evoluzione sociale, economica e culturale fin dai tempi più antichi.
Essi sono stati il perno principale intorno al quale ruotava l’economia e la vita del territorio, dando alle genti che lo hanno abitato sicuro sostentamento e anche benessere. 
Sebbene di piccole dimensioni, i monti massicani possono essere tranquillamente chiamati “montagne” perché  superano la quota dei 600 metri richiesti con il Monte Massico, che è alto poco più di 800 metri, e di altre cime poco più basse quali  Monte Pecoraro, Corbellino, Monte Petrino e Monte Cicoli.
Geologicamente, la catena del Massico è una diramazione calcarea del Vulcano di Roccamonfina che si estende fino al Mar Tirreno e conserva ancora le tracce del passaggio dell’uomo nel suo divenire, a cominciare da tempi remotissimi. Interessantissime sono senza dubbio le “pagliare” del Massico che ho avuto modo di vedere personalmente qualche anno fa: resti di capanne in pietra  perfettamente circolari che potrebbero essere state abitazioni  di un insediamento preistorico o ricoveri per pastori d’altri tempi. Non conosco studi al riguardo.
Nell’antichità classica, essa era il confine settentrionale della Magna Grecia ed aveva quindi un’importanza fondamentale nella delimitazione territoriale e culturale: al di qua e al di là del Massico, due mondi socialmente, economicamente e culturalmente diversi che, ad un certo punto, si incontrarono, si scontrarono e infine si fusero in un unico grande popolo.
Con i romani, la catena del Massico divenne fondamentale per l’economia della zona grazie alle coltivazioni del pregiato Falerno che inorgogliva le tavole dei patrizi romani nella capitale. I resti delle numerose ville romane che ancora punteggiano le sue pendici, sono la testimonianza di una vita molto fruttuosa, dedita alla produzione del vino. I proprietari di queste ville, senz’altro splendide,  non erano solo ricchi romani con una casa in campagna  da queste parti, ma erano sicuramente anche produttori del Falerno la cui commercializzazione con Roma era legata ad un determinato tipo di anfora: di tipo greco-italico  in periodi più antichi e vari tipi di dressel (IA, IB, 2-4) dal III sec a.C. alla metà del I sec. d.C.
Anche queste anfore venivano prodotte in zona e numerosissime sono le fornaci ritrovate lungo le falde del Massico. Questo testimonia una filiera produttiva e commerciale incredibilmente dinamica e vitale che sicuramente portò in zona se non ricchezza almeno benessere.
Il Falerno non era però l’unico prodotto commerciabile proveniente dai nostri monti; anche l’olio aveva la sua importanza, ma soprattutto la carne di cinghiale. I recenti brevi scavi a Foro Popolio hanno portato alla luce le ossa di centinaia di cinghiali, il che fa supporre che la zona commerciasse anche questa carne selvatica molto richiesta e che i monti ne fossero pieni. La caccia al cinghiale era dunque  un’attività praticata quotidianamente e molto redditizia.
Il periodo paleocristiano cosparse questi monti  con il seme della sacralità, quando le loro numerose grotte ospitarono cristiani perseguitati, eremiti contemplativi e asceti, diventando “grotte di fede”. Oltre alla più famosa grotta di San Martino, dove il santo si ritirò in solitudine, esistono anche l’enorme grotta di Sant’Angelo, quella quasi inaccessibile di Santa Venere (o Verene) e San Mauro. Quando poi il cristianesimo divenne la ben consolidata religione ufficiale, diversi monasteri e cenobi  furono costruiti in luoghi solitari sui monti, dove i monaci si isolavano per vivere la propria fede.
Attraverso i secoli, l’economia del carinolese è andata mutando, ma i monti hanno sempre rappresentato una parte fondamentale di essa.
La produzione intensiva del Falerno fu sostituita in parte da quella dell’olio, e la montagna forniva ai baroni prima e al Comune poi, un cospicuo reddito annuale grazie all’affitto delle “cesine” a conduzione familiare. Le cese della catena del Massico sono state per secoli, fino a qualche decennio fa,  l’unica fonte di sostentamento delle famiglie casanovesi e falcianesi che in esse producevano i basilari ceci, cicerchie, fagioli e grano, oltre a sfruttarne legna e quant’altro. Proprio perché le cese erano così importanti per il sostentamento familiare, la montagna veniva curata e tutelata in maniera quasi maniacale e la flora e la fauna mediterranea trovavano in essa l’ habitat naturale ideale, rendendola rigogliosa e florida.
Il periodo post-unitario soffuse invece questi monti col fascino del brigantaggio, allorquando divenne via di fuga e rifugio ai numerosi briganti che scorrazzavano nel sessano e nel carinolese.  E rifugio sono stati per i nostri padri e nonni, quando, durante la Seconda Guerra Mondiale,  i tedeschi perlustravano i paesi in cerca di uomini da avviare al lavoro coatto; e ancora da essi, trasformati in luoghi dispensatori di morte, giunsero in paese le cannonate che uccisero decine di civili, nostri parenti.
Storia e  storie si sono intrecciate e posate su di essi che per sempre ne custodiranno la memoria, ma la sensibilità per la loro sorte non è più la stessa così come non è più lo stesso il rispetto e la tutela.

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“C’era una volta la montagna”  mi suggerisce  che non posso non far seguire “Mi ricordo montagne verdi” nonché “Com’era verde la mia valle”. Questo excursus panoramico storico di Clio così denso, pregno dei continui riferimenti ai passaggi evolutivi  umani che sul nostro territorio si sono susseguiti, dalla preistoria all’ultimo periodo post-bellico, mi da il coraggio di lanciare l’ennesimo grido di allarme: i nostri monti non sono più NOSTRI! Le nostre valli (vaglie) non sono più verdi!
Una visione piccina dello sfruttamento delle nostre risorse ambientali ha lanciato sui nostri monti, come cercatori d’oro nel Klondike, ambigui e biechi personaggi che quotidianamente se ne appropriano.
Nell’attuale epoca moderna, i nostri monti, ormai abbandonati, da tempo non ricevono più le cure religiose che i nostri avi vi dedicavano; sottovalutati e legalmente dimenticati dalle varie amministrazioni che nel tempo si sono susseguite, sono divenuti terra di conquista da parte di chiunque voglia depredarli di alberi, abbandonarvi rifiuti e, infine, incendiarli per avere pascolo fresco.
Tali azioni viziate, illegali e non perseguitate da alcun Organo preposto, attuate da persone prive di
qualsiasi cultura storica e/o ambientale, ha trasmesso nella maggior parte della popolazione indigena l’idea di un unico, misero, immediato, possibile guadagno. Non mi stancherò mai di ripeterlo: uno sfruttamento simile è da ciechi in quanto pericoloso e limitato nel tempo.
Siamo figli ingrati ed irriconoscenti,  abbiamo cancellato con gesti incivili, conditi da ignoranza, la sacralità che, attraverso i monti, ci legava ai nostri antenati…
Sono solo segno dei tempi, mi si dice: giustissimo! Tempi bui, dico io. E spesso mi ritrovo a pensare… che… un buon padre, sempre attento e vicino ai propri figli, si aspetta un atto d’amore e di riconoscenza quando attraversa dei periodi e delle vicissitudini poco piacevoli.

C’era una volta la montagna…. Così inizieranno i nostri racconti alle future generazioni.

Clio & Cleo

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mercoledì 17 novembre 2010

La prima amministrazione comunale di Carinola



Qualche anno fa, l’allora sindaco dott. Antonio Matano, mio carissimo amico d’infanzia e di vita prematuramente scomparso, mi disse che gli sarebbe piaciuto avere una lista completa di tutti i sindaci del Comune di Carinola e, soprattutto, gli sarebbe piaciuto conoscere il nome del primo sindaco e dei primi assessori del nostro Comune. Allora, non fui in grado si soddisfare la sua curiosità, e di questo me ne dolgo tantissimo, perché le mie ricerche andavano in un’altra direzione. Ora, pur non avendo ancora elaborato la lista completa dei sindaci di Carinola, posso asserire  al 99,9%  chi fossero i componenti della prima amministrazione comunale di Carinola. E credo farà piacere anche ai lettori saperlo.

*****

Bisogna ritornare  al decennio  francese (1806-1816), a quegli anni di grandi cambiamenti politici,  sociali e amministrativi che investirono tutta l’Europa e che furono la vera propulsione verso la modernità. Fino al 1806, nel nostro territorio perdurava ancora il sistema feudale introdotto dai normanni, anche se esso aveva subìto, nel corso dei secoli, diverse modifiche man mano che i baroni riuscivano  a strappare al re prerogative e vantaggi che li avevano trasformati  in tanti despoti non più controllabili dal potere centrale. Essi, i baroni, forti del loro potere, immancabilmente trasgredivano alle regole di comportamento annotate negli Statuti che ogni feudatario avrebbe dovuto rispettare  ed opprimevano il popolo con pesi ed oneri insostenibili.
Come detto in un altro articolo, nel 1806 Carinola era una Universitas retta dal Duca Gaetano Grillo di Mondragone, marchese di Clarafuentes e ultimo proprietario del territorio carinolese. A lui andavano tutte le tasse: gli affitti delle terre, le tasse sul macinato, quelle sul sale e persino su certi usi civici, diritti essenziali e naturali della popolazione; ed era lui a nominare i giudici per l’esercizio della giustizia, che tanto giustizia non era. Chiaramente.
Con la venuta di Napoleone, il Regno fu investito da una raffica di novità, da parole nuove che suonavano come musica alle orecchie di molti: libertà, uguaglianza, fraternità, parole coniate in seno alla rivoluzione francese e che si diffusero con la velocità di un fulmine, perché erano ciò  a cui  il popolo oppresso aspirava.
Il Regno di Napoli era preso e Napoleone non lo risparmiò. Fu introdotto il Codice Napoleonico, la riforma Amministrativa e, soprattutto, fu abolito quel maledetto feudalesimo che tante ingiustizie  aveva partorito.
L’apparato amministrativo borbonico, così vecchio ed obsoleto per le nuove esigenze della nuova era, fu rivoluzionato in ogni sua parte, in ogni angolo più nascosto, in ogni  lembo di terra, piccolo e grande. Fu effettuata una nuova ripartizione più funzionale del Regno con l’istituzione delle Province, i Distretti e i Circondari. Nelle Universitates, l’ inconsistente Parlamento, la vecchia amministrazione comunale che faceva comunque capo al barone, fu sostituito con un nuovissimo organismo amministrativo: il Decurionato.
Il Decurionato era un organo decisionale abbastanza snello perché costituito da un numero ristretto di persone elette per sorteggio da tutti coloro che erano iscritti nella lista degli eleggibili, lista che veniva approvata in precedenza dagli Intendenti regi provinciali. Non tutti potevano far parte della lista degli eleggibili a decurione, ma solo coloro che avevano una rendita annua imponibile non inferiore a 24 ducati.  Il potenziale decurione poteva essere anche analfabeta ma, insieme ad altri decurioni, analfabeti anche loro, doveva costituire  1/3 dell’intero organo collegiale.
Con queste premesse, è chiaro che veniva esclusa dalle decisioni della Comune la maggior parte del popolo, analfabeta e povero. Spettava perciò al Decurionato farsi carico di tutte le esigenze della popolazione carinolese e soddisfare i suoi bisogni in tutte le fasce d’età.

La prima squadra di ‘gentiluomini’ che costituì la prima amministrazione comunale carinolese era così composta:


Giacomo Rozera, sindaco
Antonio Saraceni, decurione
Filippo De Simine, decurione
Antonio di Theo, decurione
Giuseppe La Provitola, decurione
Giacomo Spani, decurione
Antonio Dinella, decurione
Gaetano Martullo, decurione
Pietro Mazzucchi, decurione

Questi gli  uomini che dovettero far nascere ed organizzare la moderna Amministrazione Pubblica di Carinola  a cominciare dal 1809, ma che solo verso il 1813 divenne funzionale in ogni sua parte.
Possiamo solo immaginare con quanto impegno e quanta energia questi uomini affrontarono il loro oneroso ruolo di “padri” della nuova era. Grazie a loro, Carinola iniziò il suo cammino verso la modernità che, pur tra alti e bassi o rallentamenti, non ha mai conosciuto soste.
Attenzione però: non bisogna dimenticare che, malgrado i rivoluzionari cambiamenti, il periodo napoleonico fu pur sempre un periodo di monarchia assoluta. Anche l’Amministrazione Pubblica diventava quindi uno strumento, sicuramente più moderno e sciolto, per tenere sotto controllo l’intero Regno e ben saldo il potere. In questa ottica va quindi visto l’operato del Decurionato che, se da un lato liberò il popolo da tanti pesi nei confronti del feudatario, dall’altro segnò l’ascesa della borghesia che acquisì in maniera esclusiva il potere politico.
Ma questa è un’altra pagina.

Clio

Fonte: Archivio di Stato di Caserta – documenti del decennio francese



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venerdì 24 settembre 2010

Il Savone: un padre molto trascurato

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Come più volte ho ribadito nei miei articoli, la conoscenza del territorio aiuta a rispettarlo, proteggerlo, valorizzarlo ed amarlo.
In questo particolare pezzo, desidero occuparmi brevemente del Savone, il piccolo  corso d’acqua che attraversa il carinolese e che nell’antichità ricopriva un ruolo fondamentale. Altri avvenimenti storici saranno solo accennati. I pignoli del ramo che pensano di leggere un trattato storico completo resteranno delusi, tuttavia sarà ben accetto chiunque voglia offrire i propri contributi conoscitivi per la gioia dei lettori.

 *****
La parola “Falerno”, che nell’antichità denominava il nostro territorio, diventato famoso per quell’ottimo vino esportato in tutto il mondo classico, potrebbe essere di origine italica o etrusca. Deriva probabilmente da Faler, il nome dato dagli antichi a quel placido e piccolo fiume che i Romani chiamarono poi Savone (Safo)) e che nasce dal vulcano di Roccamonfina, attraversava il distretto di Teano e di Cales, il carinolese in tutta la sua lunghezza, da est a ovest, per finire,  dopo circa 48 km, a sud di Mondragone.
Falerno si chiamò il territorio, Falerno il principale prodotto, il vino, e Falerina o Falerna la tribù di coloni istituita  nel 318 a.C.
Prima che i romani mettessero piede nel nostro territorio, il fertilissimo ager Falernus apparteneva probabilmente all’ etrusca Capua, prospera città, capoluogo dei Campani.
Ma il nostro territorio faceva gola soprattutto ai Sanniti che si sentivano più in diritto di averlo, visto che da sempre abitavano nell’area e per nulla al mondo avrebbero voluto lasciarlo ai romani.  Per loro i romani erano degli intrusi arrivati all’improvviso e per contendersi la supremazia del basso Lazio e della Campania settentrionale, romani e sanniti se le diedero di santa ragione in una delle ben note guerre sannitiche, la prima,  ma solo dopo le battaglie  di Veseris prima e di Trifanum poi, in cui nel 340 a.C. l’esercito romano sconfisse le città della Pentapoli Aurunca e i loro alleati sanniti, Capua fu costretta a  cedere l’ager Falernus ai romani. I poveri sanniti, rotti e mazziati, dovettero mollare definitivamente l’osso e sparire dalla circolazione.
Da questa conquista, i romani ereditarono una florida situazione commerciale. Il Savone, ritenuto dalla maggior parte degli studiosi il confine meridionale dell’ager Falernus e linea di demarcazione tra questo e l’ager Statanus,  era un corso d’acqua navigabile particolarmente vitale, che niente aveva a che fare con la ridotta portata d’acqua di oggi;  una di quelle vie d’acqua che univa la costa alla via interna che collegava la Campania e il Lazio, quella che poi fu la futura via Latina dei romani, pressappoco l’ odierna Casilina.

Il collegamento con la via Latina significò ricchezza e benessere  anche per la zona costiera. Infatti, mentre gli altri distretti ausoni erano entità sociali chiuse su se stesse, i distretti toccati dalla via Latina erano diversi;  il contatto continuo con Capua, le città latine e i loro commerci li rendeva sicuramente più dinamici e vitali. La Cales preromana appariva, infatti, ricchissima proprio grazie a questa importante via interna su cui si svolgevano i commerci, nonostante la vicinanza del mare. Cales non era già più un villaggio, ma una protocittà, che si distaccava  notevolmente dalle consuete forme abitative  degli ausoni.
Alla foce del Savone sorse uno dei santuari italici più arcaici dell’area, Panetelle, a cui questa favorevole posizione giovò moltissimo e lo testimoniano le numerossime statuette votive in esso ritrovate. Il santuario era un probabile luogo di incontro della popolazione dei villaggi dell’area sinuessana.
  Sempre sul Savone, a pochi km da Cales e Teano, a Montanaro, esisteva un altro ricchissimo luogo di culto preromano, poi riutilizzato dai romani, in cui sono stati rinvenuti molti oggetti d’oro. Il tempio risale al VI – V secolo a.C e dai materiali ritrovati in esso si deduce che, oltre ad essere luogo di culto, era anche emporio commerciale frequentato da ausoni, etruschi, latini, greci, sanniti e romani. Più tardi, verso il III secolo a.C., i romani lo ristrutturarono completamente dedicandolo alla dea Demetra.
Probabilmente furono proprio queste vie d’acqua come il Savone  e il contato con l’interno che costituirono un primo approccio di commercializzazione,  tramite porti e scali marittimi, che più tardi si evolse notevolmente con l’istituzione delle colonie. 

Oggi il Savone non può chiamarsi più neanche fiume. E’ un fiumiciattolo  a cui è riservato il destino di tutti i   corsi d’acqua di questi tempi moderni: nasce sano e vitale e muore stanco e malato.
Usato nel recente passato per l’irrigazione dei campi, adesso non lo è neppure per quello.  Eppure non ha perso il suo fascino. Alle sorgenti è ancora bellissimo e offre angoli naturali di suggestiva bellezza con le sue cascatelle e il suo regime torrentizio. Man mano che però procede verso il mare si impregna di veleni, di scarichi di fogne, di canaletti di scolo, diventando esso stesso una fogna a cielo aperto.
Nelle sue acque e lungo le sue sponde si ritrova di tutto: immondizia, rottami, carcasse di animali e gli abitanti dei luoghi che attraversa lo evitano come la peste, non pensando che, se è diventato quella fogna che è, lo si deve solo a noi uomini che non riusciamo a difendere l’eredità del passato.
Invito tutti i sindaci interessati, tra cui quelli di Carinola, Falciano e Francolise, a unire le loro forze per un eventuale  risanamento del territorio che possa ridare dignità a questo corso d’acqua su cui è passata la nostra storia, adottando anche seri provvedimenti affinché non si continui a consumare un simile scempio.

- le foto dell'alto corso del Savone sono state gentilmente concesse dal sig. Oreste De Donato.
- la foto dell'antica Cales è del sig. Dante Caporali.

 Clio
con la consulenza di Minucius Aeterius

mercoledì 22 settembre 2010

Il Villaggio delle Lanterne Zozze

lanterne zozzeTanti anni fa Marco Polo nei suoi lunghi viaggi attraversò la Cina in lungo ed in largo visitandone anche i villaggi più piccoli. Nel suo girovagare aveva sempre notato le allegre lanterne rosse che tutti i locali pubblici e le case di famiglie importanti tenevano accese per tutta la notte. Più numerose e lucenti erano le lanterne tanto più era importante il locale o la famiglia che le esponeva. Marco Polo restò colpito da quello spettacolo che tutte le sere le lanterne davano in tutte le città e villaggi della Cina tanto da annotarlo nei suoi appunti citandole più volte. Pochi conoscono invece il Villaggio delle Lanterne Zozze in quanto le annotò in un diario che non fu pubblicato. 
Allontanatosi dalla capitale per visitare i vari luoghi a lui sconosciuti, girovagando nelle campagne arrivò in un villaggio dove fu copito da un fatto inusitato. Tutte le case erano abbellite con quelle che a lui a prima vista sembrarono le solite lanterne. La stranezza che lo colpì subito fu che erano variopinte e non del solito colore rosso che lui era ormai abituato ad ammirare. Ogni cancello aveva appese tante lanterne di vario colore di numero variabile ma in proporzione alla grandezza dell'abitato, più grande era il fabbricato più alto era il numero di lanterne appese. Giunto nel corso pricipale gli sembrò veramente un bello spettacolo quella esposizione di tanti orpelli che davano un aspetto festoso al villaggio. Continuando ad addentrarsi nel paese incominciò a rendersi conto che qualcosa non andava. Notò infatti che quelle che lui pensava fossero lanterne non erano appese come di solito ma erano attaccate in modo disordinato sui cancelli ed ai muri in modo scomposto. Si fermò per osservare meglio e giunto a pochi metri si rese conto del suo abbaglio per cui esclamò" ho scambiato monnezze per lanterne" Incuriosito chiese ad un indigeno cosa fosse quella novità particolarmente suggestiva ma anche molto puzzolente. 
Il pover'uomo guardandosi intorno per assicurarsi che nessuno lo vedesse gli spiegò l'arcano. Il governatore aveva imposto a tutti gli abitanti di esporre i loro rifiuti con l'ordine di rimuoverli solo ogni dieci giorni pena cento frustate e la solita forte multa. Visto lo sbigottimento del suo interlocutore il villico continuò nello spiegargli che in quel modo si metteva in mostra la ricchezza degli abitanti. Gli fece notare le abitazioni delle famiglie più abbienti con tantissimi sacchi mentre quelle dei più poveri erano adornate da un numeo minore. Oltre che a misurare il tenore di vita dei sudditi servono anche a decorare il villaggio che ha un aspetto più allegro. Unica nota stonata è che la tassa per l'asposizione dei rifiuti è altissima e chi non espone nulla viene punito duramente per occultamento di monnezza, reato gravissimo. Marco provò a chiedere come mai non ci fosse una ribellione a quelle angherie provocando la meraviglia dell'interlocutore. Gli disse che nessuno si ribellava anzi tutti avevano accolto la disposizione molto favorevolmente. Tutti fanno a gara per appendere i loro rifiuti ostentando  così la propria ricchezza, alcuni arrivano perfino a rubarli dai vicini per appenderli alle proprie abitazioni. Se gli addetti ai lavori provano a raccoglierli prima dei dieci giorni previsti sono aggrediti e picchiati duramente. Aggiunse che siccome il cacicco locale eletto dal popolo non faceva rispettare fedelmente la disposizione era stato rimosso e sostituito da tre solerti funzionari governativi che avevano ripristinato il rispetto rigoroso della legge. Marco restò alquanto perplesso ma preso atto delle delucidazioni ricevute annotò nel suo diario"oggi ho visitato il villaggio delle lanterne zozze"            
Marco Polo
lanterne zozze

lanterne zozze
lanterne zozze
lanterne zozze

sabato 24 luglio 2010

Carinola: da Universitas a Comune


I ruderi del Castello Normanno
Cari amici,  da un po’ di tempo vi seguo e trovo alquanto interessanti i vostri articoli. 
Mi  sapreste dire in che anno Carinola è diventato Comune? Grazie.

L’anonimo lettore o lettrice che via mail ci ha chiesto in che anno Carinola è stato fatto Comune, probabilmente non si rende conto della complessità della sua domanda. Si aspetta forse una risposta semplice, un particolare anno che stabilisca l’inizio dell’azione amministrativa del Comune. Mi dispiace dargli una delusione, ma non è così.
La storia di Carinola come Comune è molto lunga ed onorevole e meriterebbe, per i suoi trascorsi, molta più attenzione e valorizzazione da parte di tutti. Nondimeno, per soddisfare la stimolante curiosità del nostro lettore è necessario, per forza di cose, tracciare a grandi linee il cammino storico amministrativo di Carinola, evitando pesanti approfondimenti che potrebbero interessare solo gli studiosi del ramo.

La nascita di Carinola come Universitas, il comune dell’Italia meridionale, risale all’ VIII secolo d.C circa, durante il periodo longobardo, e  faceva parte di quell’estesissimo Ducato di Benevento che, insieme al Ducato di  Spoleto, costituiva la Longobardia Minor nell’Italia centro-meridionale in opposizione alla Longobardia Maior nell’Italia settentrionale.
Quando poi, intorno all’anno 1000, arrivarono i Normanni e instaurarono il Regno normanno di Sicilia, introducendo il sistema feudale, le Universitates furono concesse in feudo a persone di fiducia del re  e molte di esse, dopo il 1140, furono trasformate in contee, i nuovi organismi feudali voluti dal Re Ruggiero d’Altavilla.
Le contee erano governate da un conte che aveva carica e poteri squisitamente militari, mentre la giustizia era affidata a magistrati e giudici appositamente designati. Caratteristica delle contee era la solidarietà del lignaggio; tutti i conti del regno erano legati  alla stirpe degli Altavilla da un vincolo di sangue e venivano nominati  direttamente dal re.
Le mura del Castello
La Contea di Calenum o Carinula fu istituita dopo il 1143-45 e fu concessa a Gionata, figlio di Riccardo, la cui bisnonna era sorella di quel Roberto d’Altavilla, detto il Guiscardo, che fu il principale artefice dell’ ascesa normanna in Italia.
Con gli Angioini prima e gli Aragonesi poi, le Universitates indebolirono notevolmente  il loro potere a causa della crescita di quello dei feudatari (baroni), i quali influivano pesantemente sull’elezione dei magistrati. Le Universitates divennero quindi proprietà del feudatario e potevano essere vendute o comprate, insieme agli uomini e animali che le abitavano, come una qualsiasi merce. La stessa prassi continuò nei due secoli  di vicereame nel Regno di Napoli  e  poi con i Borbone. 
L’ultimo feudatario  di Carinola fu il Duca Gaetano Grillo di Mondragone, il quale ne fu proprietario fino al 1806, anno in cui il feudalesimo fu abolito da Giuseppe Bonaparte, re di Napoli  e fratello di Napoleone. Nel decennio francese, l’Universitas di Carinola divenne la Comune di Carinola, secondo il lessico portato dalla rivoluzione francese,  acquistando nuova autonomia e nuova dignità. Autonomia che mantenne anche quando la Storia riportò di nuovo i Borbone col loro Regno delle Due Sicilie, poi l’Unità d’Italia, e la Comune di Carinola era diventato definitivamente il Comune di Carinola.

Clio

Fonte: Archivi di Stato di Napoli e Caserta
           Errico Cuozzo – La monarchia bipolare: Il Regno normanno di Sicilia

martedì 1 giugno 2010

Foro Popilio: soldi sprecati?

Il titolo è lo stesso di altri articoli di questi giorni riportanti dichiarazioni del soprintendente dei beni archeologici di Caserta, Benevento, Salerno ed Avellino, con la differenza di un punto interrogativo in più. 
Il soprintendente in una intervista ad un blog locale ha rilasciato alcune dichiarazioni che esplicitano in modo perentorio il proprio pensiero. 
La dott.ssa Maria Luisa  Nava è da pochi mesi a capo di questa soprintendenza immensa che abbraccia quasi tutto il territorio campano ed importantissima per la quantità di beni archeologici sottoposti alla sua tutela, contando ben ventuno musei. Le dichiarazioni hanno sucitato qualche perplessità fra quelli che conoscono il curricula del soprinterndente in oggetto.  La dott.ssa Nava non solo è una brillante dirigente del ministero dei beni culturali  ma è anche e soprattutto una studiosa ricercatrice di fama internazionale, autrice di innumerevoli pubblicazioni di grande pregio scientifico. Destano meraviglia le sue dichiarazioni che hanno annullato la ricercatrice per dare spazio assoluto al funzionario preoccupato solo di tutelare i beni esistenti a lei affidati. Dal  punto di vista del freddo funzionario il discorso di preoccuparsi delle fasi successive prima di iniziare uno scavo e quindi evitarne di nuovi è giustissimo ma non  da parte di una cittadinanza proprietaria di un tesoro di cui non può usufruire. Dall'intervista si ha la sensazione che non conosca perfettamente Foro Popilio, quasi fosse una delle tante ville romane dell'Ager Falernus e quindi  viene liquidato come uno spreco di soldi. 

Mai i soldi dei cittadini sono stati spesi così bene e per un fine tanto nobile. Poi forse non si è informata che si parla di meno di ventimila euro e non dei milioni spesi per il convento di San Francesco a Casanova e per il restauro infinito di Foro Claudio. Quei pochi spiccioli sono serviti a portare all'attenzione della comunità scientifica internazionale un tesoro nascosto e inutilizzato per l'incuria di tanti e per tanti anni. Sono serviti per un corso generale di aggiornamento culturale che milioni di ore di lezioni universitarie non sarebbero riuscite ad ottenere. Si ricorda l'interesse di tutta la popolazione per quel lavoro e l'entusiasmo di tutti i giovani della zona per la scoperta della storia inedita delle loro nobili origini. Stupisce che si condanni un' operazione tanto meritoria forse perchè non la si conosce o forse per giustificare il suo diniego alla richiesta  presentata dall'amministrazione comunale per ottenere fondi per il prosieguo degli scavi. Quei fondi sarebbero serviti anche alla sistemazione definitiva del sito con la creazione di un parco archeologico ed anche la sua messa in sicurezza. Evidentemente la limitata disponibilità di fondi l'hanno indotta ad utilizzarli in altri siti più sponsorizzati. Si comprende anche questo ma non si comprende l'attacco denigratorio dei lavori eseguiti  parlando di tombaroli fingendo di ignorare che da decenni questi scavano indisturbati in quell'area nel disinteresse delle autorità competenti, soprintendenza in primis. 
Il tono del nordico che pensa di essere arrivato nelle terre di Gomorra tra camorristi ignoranti volendo portare la voce della verità ha ricordato l'arrivo delle truppe piemontesi all'indomani dell'unità d'Italia. Non sono i lavori di Foro Popilio gli sprechi da combattere ma quelli milionari già citati o del castello ducale di Mondragone. Lavori di semplice muratura spacciati come restauro facendo lievitare i costi  dieci volte di più raggiungendo così cifre stratosferiche per ogni intervento . Questi sono i veri soldi sprecati , ne parlasse col suo ministro nordico e decidessero di separare in ogni progetto di restauro il lavoro di normale muratura dai lavori di restauro vero e proprio,  ed avrebbero la sorpresa di ritrovarsi con milioni di euro da impegnare anche a Foro Popilio.
Queste polemiche non devono scoraggiare quelli che credono nella bontà e nobiltà di quel progetto e devono  spronare i rappresentanti politici a continuare a chiedere i fondi nonostante i pareri contrari , convincendoli che si combatte per una buona causa  e per l'interesse generale della comunità carinolese anche contro le opinioni del soprintendente di turno.

POPILIO LENATE

lunedì 15 febbraio 2010

C'era una volta...Carnevale

Tanti anni fa il carnevale, più di oggi, non era un solo giorno di festa ma un periodo abbastanza lungo. Nei giorni di carnevale era lecito qualunque scherzo anche un pò pesantuccio come lanciare farina o altro, l'uovo no, quello si preferiva mangiarlo. Gruppi di tre o quattro ragazzi con la mascherina tipo Zorro, ricavata dalla copertina nera del quaderno di scuola, giravano di casa in casa chiedendo"ventresca e sauciccia"e cantando" carnevale ngricca ngricca mangia pane e sauciccia...." Uno del gruppo portava uno spiedo di legno, di castagno o di nocciolo accuratamente pulito della scorza, in cui si infilavano le offerte che si ricevevano. Alla fine del giro ci si riuniva in qualche casa e si consumava tutto quello che si era raccolto. La quantità dipendeva dal numero di case visitate ma soprattutto dalla qualità delle case visitate. A quei tempi non tutti si potevano permettere di ammazzarsi il maiale e quindi poter regalare salsiccia, pancetta e forse nemmeno il guanciale. Qualcuno dovrebbe sciogliere il dubbio se sia nata prima questa tradizione delle nostre parti o la festa di halloween, quasi certamente la festa americana è scaturita da queste nostre consuetudini importate e fatte loro. Come oggi fanno i ragazzi americani che chiedono il dolcetto minacciando scherzetti, allora si minacciava di bussare al portone per tutta la sera se non si cacciava "a sauciccia" o simili. In questo periodo, e solo in questo, qualche sera ci si riuniva in casa di parenti o di qualche vicino per fare la zeppola che era ed è un dolce tipico di Casanova, Carinola e dintorni. Questo dolce si ottiene versando un impasto molto liquido di latte, farina, uova e sugna in un tegame di terracotta detto "ruoto" costruito apposta per questo dolce dai maestri della terracotta di Cascano. Guardando quel tegame sembra di vedere ancora le donne anziane mentre controllavano se avesse raggiunto la giusta temperatura col vecchio sistema di mettervi dentro un carbone ed aspettare che fumasse dando il segnale per versare il liquido. E' da ricordare e lodare un gruppo di donne di Santa Croce di Carinola che hanno ripreso la tradizione della zeppola e la preparano in svariate occasioni raccogliendo l'apprezzamento di tutti quelli che la mangiano. Il carnevale di una volta finiva con la morte di Carnevale che logicamente si celebrava la sera del martedì grasso. Dopo aver consumato una cena pesante a base di carne di maiale innaffiata con grandi quantità di vino Falerno, allora sempre ottimo, si usciva per la processione di "Carnevale muortu". Questa processione era una parodia blasfema della processione del Cristo morto del Venerdì Santo e per questo era messa all'indice dal parroco. Inutile dire che delle prediche e delle scomuniche del parroco pochi tenevano conto e pertanto la processione godeva di una folta partecipazione. Il corteo era aperto da incappucciati che rappresentavano la congrega, quasi sempre l'abito era lo stesso usato per le processioni religiose. Dietro la congrega seguivano i notai che avevano il compito di scrivere le ultime volontà di Carnevale. L'abbigliamento di questi notai era vario ma comunque abbastanza elegante, di singolare avevano il libro dove dovevano scrivere le ultime volontà che era il basto dell'asino, in gergo la "varda". Dopo seguiva Carnevale sdraiato su di un catafalco coperto da un lenzuolo bianco. In verità non era sdraiato ma camminava con le sue gambe con la testa infilata in una scala sorretta da molte persone. La faccia di Carnevale era stata truccata con abbondante farina in modo che spiccasse il colore bianco nel buio della sera. Il feretro era seguito dal prete con vari chierichetti, il prete portava in una mano un secchio e nell'altra una scopa che usava per benedire la folla. Ogni volta che iniziava a benedire si scatenava un fuggi fuggi generale perchè quella che arrivava non era proprio acqua benedetta, anzi, molte volte non era nemmeno .... acqua!.Dietro al prete c'era tutta la popolazione che accompagnava Carnevale nel suo ultimo viaggio. Durante tutto il tragitto si salmodiava come una cantilena tra i notai e la folla che numerosa si accalcava dietro a Carnevale morto, sia le domande dei notai che le risposte del popolo avevano lo stesso tono cantilenante. I notai chiedevano"la sauciccia a chi la rimani?" tuti rispondevano "cà stammu nui"dopo "la ventresca a chi la rimani?"tutti rispondevano "cà stammu nui"dopo chiedevano della cantina, della ‘nnoglia , del maiale, della moglie e tutti rispondevano allo stesso modo. Sembrerà strano ma non c'era la richiesta a chi restasse i soldi, forse perché ce ne erano pochi ma forse perché si dava più importanza al vino ed alla salsiccia che non ai soldi. In mezzo a queste richieste ogni tanto i notai chiedevano" i debiti a chi li rimani?"e tuti rispondevano "libera me domine" in perfetto latino. Stessa risposta alle domande a chi restava, il lavoro," à fatica", le malattie ed altro che resto all'immaginazione in quanto vocaboli altamente censurabili. Ogni tanto la cantilena veniva sospesa per permettere al parroco di benedire e chi non si spostava in tempo veniva benedetto da acqua poco santa. Il corteo dopo aver fatto tutta la strada del paese raggiungeva i pressi della chiesa dove si scioglieva dopo l' ultima cantata e parecchie benedizioni da parte del falso parroco tra risate e schiamazzi. Era una serata piena di risate interminabili e sguaiate con lazzi e scherzi di ogni genere e nonostante quasi tutti fossero oltre ogni limite di sopportabilità alcolica non si registravano mai zuffe o alterchi violenti come invece capita frequentemente nelle manifestazioni dei nostri giorni.


Pantalone