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I nostri monti fanno talmente parte della nostra normalità paesaggistica che quasi non li vediamo più e perciò non vengono tenuti nella giusta considerazione. Chi oggi li guarda, ci vede solo delle elevazioni pietrose, un po’ aride e non si sofferma ad alcuna considerazione speculativa.
Chi invece riesce ad allungare lo sguardo oltre ciò che vede, verso periodi lontani e realtà diverse, quando essi erano verdi e lussureggianti, ricchi di acque torrentizie e di popolo operoso, comprende che non sono solo un elemento decorativo permanente, ma sono stati e sono un’intima parte della nostra evoluzione sociale, economica e culturale fin dai tempi più antichi.
Essi sono stati il perno principale intorno al quale ruotava l’economia e la vita del territorio, dando alle genti che lo hanno abitato sicuro sostentamento e anche benessere.
Sebbene di piccole dimensioni, i monti massicani possono essere tranquillamente chiamati “montagne” perché superano la quota dei 600 metri richiesti con il Monte Massico, che è alto poco più di 800 metri, e di altre cime poco più basse quali Monte Pecoraro, Corbellino, Monte Petrino e Monte Cicoli.
Geologicamente, la catena del Massico è una diramazione calcarea del Vulcano di Roccamonfina che si estende fino al Mar Tirreno e conserva ancora le tracce del passaggio dell’uomo nel suo divenire, a cominciare da tempi remotissimi. Interessantissime sono senza dubbio le “pagliare” del Massico che ho avuto modo di vedere personalmente qualche anno fa: resti di capanne in pietra perfettamente circolari che potrebbero essere state abitazioni di un insediamento preistorico o ricoveri per pastori d’altri tempi. Non conosco studi al riguardo.
Nell’antichità classica, essa era il confine settentrionale della Magna Grecia ed aveva quindi un’importanza fondamentale nella delimitazione territoriale e culturale: al di qua e al di là del Massico, due mondi socialmente, economicamente e culturalmente diversi che, ad un certo punto, si incontrarono, si scontrarono e infine si fusero in un unico grande popolo.
Con i romani, la catena del Massico divenne fondamentale per l’economia della zona grazie alle coltivazioni del pregiato Falerno che inorgogliva le tavole dei patrizi romani nella capitale. I resti delle numerose ville romane che ancora punteggiano le sue pendici, sono la testimonianza di una vita molto fruttuosa, dedita alla produzione del vino. I proprietari di queste ville, senz’altro splendide, non erano solo ricchi romani con una casa in campagna da queste parti, ma erano sicuramente anche produttori del Falerno la cui commercializzazione con Roma era legata ad un determinato tipo di anfora: di tipo greco-italico in periodi più antichi e vari tipi di dressel (IA, IB, 2-4) dal III sec a.C. alla metà del I sec. d.C.
Anche queste anfore venivano prodotte in zona e numerosissime sono le fornaci ritrovate lungo le falde del Massico. Questo testimonia una filiera produttiva e commerciale incredibilmente dinamica e vitale che sicuramente portò in zona se non ricchezza almeno benessere.
Il Falerno non era però l’unico prodotto commerciabile proveniente dai nostri monti; anche l’olio aveva la sua importanza, ma soprattutto la carne di cinghiale. I recenti brevi scavi a Foro Popolio hanno portato alla luce le ossa di centinaia di cinghiali, il che fa supporre che la zona commerciasse anche questa carne selvatica molto richiesta e che i monti ne fossero pieni. La caccia al cinghiale era dunque un’attività praticata quotidianamente e molto redditizia.
Il periodo paleocristiano cosparse questi monti con il seme della sacralità, quando le loro numerose grotte ospitarono cristiani perseguitati, eremiti contemplativi e asceti, diventando “grotte di fede”. Oltre alla più famosa grotta di San Martino, dove il santo si ritirò in solitudine, esistono anche l’enorme grotta di Sant’Angelo, quella quasi inaccessibile di Santa Venere (o Verene) e San Mauro. Quando poi il cristianesimo divenne la ben consolidata religione ufficiale, diversi monasteri e cenobi furono costruiti in luoghi solitari sui monti, dove i monaci si isolavano per vivere la propria fede.
Attraverso i secoli, l’economia del carinolese è andata mutando, ma i monti hanno sempre rappresentato una parte fondamentale di essa.
La produzione intensiva del Falerno fu sostituita in parte da quella dell’olio, e la montagna forniva ai baroni prima e al Comune poi, un cospicuo reddito annuale grazie all’affitto delle “cesine” a conduzione familiare. Le cese della catena del Massico sono state per secoli, fino a qualche decennio fa, l’unica fonte di sostentamento delle famiglie casanovesi e falcianesi che in esse producevano i basilari ceci, cicerchie, fagioli e grano, oltre a sfruttarne legna e quant’altro. Proprio perché le cese erano così importanti per il sostentamento familiare, la montagna veniva curata e tutelata in maniera quasi maniacale e la flora e la fauna mediterranea trovavano in essa l’ habitat naturale ideale, rendendola rigogliosa e florida.
Il periodo post-unitario soffuse invece questi monti col fascino del brigantaggio, allorquando divenne via di fuga e rifugio ai numerosi briganti che scorrazzavano nel sessano e nel carinolese. E rifugio sono stati per i nostri padri e nonni, quando, durante la Seconda Guerra Mondiale, i tedeschi perlustravano i paesi in cerca di uomini da avviare al lavoro coatto; e ancora da essi, trasformati in luoghi dispensatori di morte, giunsero in paese le cannonate che uccisero decine di civili, nostri parenti.
Storia e storie si sono intrecciate e posate su di essi che per sempre ne custodiranno la memoria, ma la sensibilità per la loro sorte non è più la stessa così come non è più lo stesso il rispetto e la tutela.
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“C’era una volta la montagna” mi suggerisce che non posso non far seguire “Mi ricordo montagne verdi” nonché “Com’era verde la mia valle”. Questo excursus panoramico storico di Clio così denso, pregno dei continui riferimenti ai passaggi evolutivi umani che sul nostro territorio si sono susseguiti, dalla preistoria all’ultimo periodo post-bellico, mi da il coraggio di lanciare l’ennesimo grido di allarme: i nostri monti non sono più NOSTRI! Le nostre valli (vaglie) non sono più verdi!
Una visione piccina dello sfruttamento delle nostre risorse ambientali ha lanciato sui nostri monti, come cercatori d’oro nel Klondike, ambigui e biechi personaggi che quotidianamente se ne appropriano.
Nell’attuale epoca moderna, i nostri monti, ormai abbandonati, da tempo non ricevono più le cure religiose che i nostri avi vi dedicavano; sottovalutati e legalmente dimenticati dalle varie amministrazioni che nel tempo si sono susseguite, sono divenuti terra di conquista da parte di chiunque voglia depredarli di alberi, abbandonarvi rifiuti e, infine, incendiarli per avere pascolo fresco.
Tali azioni viziate, illegali e non perseguitate da alcun Organo preposto, attuate da persone prive di
qualsiasi cultura storica e/o ambientale, ha trasmesso nella maggior parte della popolazione indigena l’idea di un unico, misero, immediato, possibile guadagno. Non mi stancherò mai di ripeterlo: uno sfruttamento simile è da ciechi in quanto pericoloso e limitato nel tempo.
Siamo figli ingrati ed irriconoscenti, abbiamo cancellato con gesti incivili, conditi da ignoranza, la sacralità che, attraverso i monti, ci legava ai nostri antenati…
Sono solo segno dei tempi, mi si dice: giustissimo! Tempi bui, dico io. E spesso mi ritrovo a pensare… che… un buon padre, sempre attento e vicino ai propri figli, si aspetta un atto d’amore e di riconoscenza quando attraversa dei periodi e delle vicissitudini poco piacevoli.
C’era una volta la montagna…. Così inizieranno i nostri racconti alle future generazioni.
Clio & Cleo
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