I dannati della Striscia di Gaza, dove il futuro è negato
Un milione e mezzo in 45 chilometri. Campi profughi infernali, l'unica speranza di sopravvivenza è il contrabbando
«Se fossi nato qui, sarei diventato anche io un “terrorista”», disse Giulio Andreotti visitando Gaza anni fa. La “striscia”, salvo dove la sabbia bianca diventa duna, è quasi piatta. Una terra arida. La poca acqua rimasta nelle falde sa di sale. E’ sempre più inquinata. Questo lembo di terra è una fetta di deserto lunga 45 chilometri, affacciata da una parte sul Mediterraneo, dall’altra su Israele. E’ largo appena 10 chilometri, con a Nord sempre Israele e a Sud l’Egitto.
Se uno percorre la strada dissestata che da Gaza porta a Rafah, non è facile rendersi conto che con il suo milione e mezzo di uomini, donne e tanti bambini e adolescenti, Gaza costituisce uno dei luoghi più densamente abitati del mondo. Basta, però, entrare in internet, cliccare su Google map e zoomare per comprendere ciò che spesso gli articoli dei giornali o le immagini trasmesse nei notiziari televisivi non spiegano a fondo. Intorno al piccolo centro di Gaza City, con il suo retaggio del periodo ottomano, rovine bizantine, resti di antiche sinagoghe e chiese e tracce della presenza della Roma dei Cesari, è cresciuta un ammasso spesso confuso di edifici di ogni genere da quando nel 1948 alle famiglie native del luogo si sono aggiunti centinaia di migliaia di profughi cacciati dalle loro terre in ciò che è oggi Israele. I “campi” dei rifugiati sono divenuti quartieri disordinati, meandri dove è difficile non perdersi. E dove, nel 1987, la rabbia innescò la prima Intifada, la rivolta contro l’occupazione.
Non si muore di fame, a Gaza, come uno potrebbe pensare quando si parla di aiuti umanitari. Ma la maggioranza della popolazione sopravvive con meno di due euro al giorno. Gaza, dal 1967, è occupata da Israele o assediata da Israele. E il blocco in vigore da tre anni, voluto dai governi israeliani e assecondato dall’Egitto per una serie di interessi convergenti e pressioni americane, ha un effetto ancora più deleterio della fame. Qui le nuove generazioni vengono bruciate, il progresso si ferma, il futuro è sempre più incerto. Mancano le scuole, mancano adeguate strutture ospedaliere, la situazione sanitaria - ammonisce l’Onu - è precaria. Manca l’industria perché l’embargo rende difficile importare materie prime ed esportare prodotti finiti. L’odore penetrante delle zagare è ovunque ma l’esportazione degli agrumi e degli altri prodotti della terra è sempre soggetto agli israeliani.
Attraverso i tunnel scavati sotto la frontiera con l’Egitto, spesso bombardati dagli israeliani per impedire il passaggio di armi, arrivano sul mercato generi di ogni sorta: benzina e sigarette, medicinali, abbigliamento e, secondo alcuni, persino automobili giapponesi smontate e da ricomporre. Beni indispensabili e altri meno ma tutti diretti a quella minima parte della popolazione che si può permettere di acquistarli. E’ un’economia di guerra e i contrabbandieri e i loro alleati diventano ricchi. Sono alcuni di loro ma soprattutto giornalisti di passaggio, stranieri delle organizzazioni internazionali, delegazioni varie che si possono permettere una buona cena in uno dei ristoranti in riva al Mediterraneo. I menù esaltano il “pesce fresco” del mare di fronte. Non dicono che non di rado le pattuglie della Marina israeliana e, talvolta, gli egiziani, sparano sui pescatori. La giustificazione: Potrebbero essere contrabbandieri.
La situazione di Gaza è peggiorata dal settembre 2005 ma il blocco, com’è oggi, ha tre anni di vita. Il suo scopo è di punire il movimento islamico ma la vera vittima è l’intera popolazione. E sulla situazione pesa ancora il devastante attacco militare israeliano di fine gennaio 2008. L’anno scorso c’è stata una conferenza per la ricostruzione, ma va tutto a rilento. Cemento, alluminio e altri materiali per l’edilizia e l’industria, sostiene Israele, possono servire a costruire i bunker di Hamas. E così entrano con il contagocce.
Eric Salerno (Il Mattino)
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